E’ certamente importante, oggi, riflettere riguardo a certi temi che sono ormai protagonisti indiscussi del dibattito pubblico. Problematiche che hanno segnato indelebilmente, soprattutto negli ultimissimi anni, la vita del nostro Paese. Tra queste hanno un posto di rilievo le vicissitudini relative alla magistratura, al suo rapporto con il potere politico, alla necessità di operare riforme per rendere più efficace il suo operato. Qualche settimana fa, durante una manifestazione culturale, ho fatto la conoscenza di uno dei più importati magistrati siciliani, Francesco Messineo, che con gentilezza si è dimostrato da subito disponibile ad un confronto, avvenuto qualche giorno dopo. Tante, davvero tante, potevano essere le tematiche da trattare e durante le due ore passate insieme è stato difficile operare una scrematura e concentrarsi su alcune di esse. Domanda dopo domanda, ho potuto ascoltare una opinione autorevole non solo sul funzionamento della giustizia ma anche relativamente a vicende processuali importantissime, come quelle sulla trattativa tra lo Stato e la mafia e di quanto avvenuto a contorno. E’ stata anche l’occasione per approfondire svariati temi di storica rilevanza, come quello del fenomeno dei magistrati che intraprendono la strada della carriera politica o sul dibattito relativo all’utilizzo del “concorso esterno in associazione mafiosa”. Ho, in ultimo, trattato il tema della corruzione per analizzare quei tecnicismi che potrebbero dare una spinta non indifferente alla causa della lotta a questo fenomeno che è protagonista, purtroppo, delle cronache quotidiane. Da tutti questi spunti ha preso forma una lunga e corposa disamina.
Dott. Messineo, lei ha passato una intera vita esercitando una professione che, se svolta con giusto animo, è anche una missione. Valori importanti e obiettivi morali sono al centro di una attività che è densa di insidie, lotte, difficoltà operative legate ai contrasti con altri poteri. Quali emozioni umane, oggi, dopo tanto percorso, regnano dentro di lei? E’ soddisfatto del suo operato o ha anche dei rimpianti?
“Ho fatto il magistrato complessivamente per quarantaquattro anni, di cui venticinque alla direzione di uffici di Procura della Repubblica, in sedi diverse come Palermo, Caltanissetta e Termini Imerese; una esperienza abbastanza ampia e piena di attività di vario tipo. Pienamente soddisfatti del proprio operato, credo, non si possa essere mai; c’è sempre qualcosa in più che avremmo potuto e dovuto fare però, complessivamente, facendo riferimento soprattutto all’ultimo periodo, agli ultimi otto anni trascorsi a Palermo, credo di poter dire che non sono stati del tutto privi di risultati. Sono stati catturati sei grandi latitanti su sette in circolazione ed è rimasto solo Matteo Messina Denaro; il sequestro dei patrimoni mafiosi è andato avanti con un ritmo impensabile; il fenomeno delle estorsioni, in cui la mafia è particolarmente attiva, prima veniva accettato e subito mentre adesso si registrano delle intense forme di reazione. Sono tutti fatti che, credo, vadano considerati con soddisfazione. Aggiungo che il numero annuale degli omicidi di mafia è diventato davvero esiguo; ci eravamo attestati su numeri a due cifre ma oggi siamo ad una media di un omicidio l’anno. Può significare che la mafia ha scelto una linea di basso profilo ma è anche un effetto della repressione.”
Il territorio dove lei ha operato, quello siciliano, è certamente stato ed è uno dei più difficili. Tanti gli incarichi da lei ricoperti in altrettante destinazioni che l’hanno vista protagonista. Quali sono le esperienze lavorative che l’hanno segnata?
“Le esperienze più belle ed importanti, ovviamente, sono state quelle legate alle indagini di mafia. Ad esempio l’interrogare pentiti che svelavano delle notizie molto interessanti, scenari prima ignoti. Questa progressione verso l’accertamento della verità è forse l’aspetto più interessante e coinvolgente della mia esperienza.”
Mi piacerebbe affrontare con lei alcuni temi importanti, per poter avere la sua autorevole opinione. Uno di questi è relativo al conflitto tra politica e giustizia. Molti addetti ai lavori ed anche chi scrive, argomentano sempre relativamente ad una importanza di quel principio di separazione dei poteri dello Stato che è alla base delle democrazie moderne. L’abolizione dell’immunità parlamentare, operata sull’onda di tangentopoli, ha creato una condizione di reale conflitto e per molti osservatori questo non può essere risolto dalla autorizzazione a procedere del Parlamento; spesso, questa, invece di basarsi sulla lettura oggettiva di carte, vede il suo esito per lotte di potere politico. Certo l’immunità parlamentare aveva senso quando i parlamentari venivano votati e non nominati; chi scrive ha un pensiero lungo da sviscerare e che va oltre queste poche righe. Ma rimanendo su una linea di principio, cosa pensa dell’istituto della immunità parlamentare e cosa della sua abolizione? Può una democrazia funzionare senza che sia garantita una protezione assoluta al legislatore? Quale è la sua opinione sul conflitto esistente tra magistratura e politica?
“Io non parlerei di un conflitto esistente tra magistratura e politica. La parola fa pensare ad una sorta di inimicizia, di contrasto e può esser fuorviante; la magistratura opera applicando la legge. Il principio di separazione dei poteri è fissato dalla nostra costituzione ma non implica che un potere possa essere completamente esente da responsabilità. Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e devono rispondere delle loro azioni. Se si accetta questo principio non vi è ragione di parlare di conflitto. Non dobbiamo dimenticare che l’immunità parlamentare nasce, nelle prime democrazie parlamentari, per proteggere i componenti del parlamento da eventuali azioni del potere esecutivo, come arresti arbitrari o altre forme di pressione. Oggi tutto questo non è più possibile ed è stato, secondo me, raggiunto un punto di equilibrio per il quale il parlamentare, come ogni altro cittadino, può esser sottoposto ad un procedimento ma può esser arrestato solo con l’autorizzazione della sua camera di appartenenza; è il parlamento che, potendo veder nascere problemi interni al sistema, deve trovare un equilibrio nel suo operato. Il sistema come tale, secondo me, in questo momento, è equilibrato. I parlamentari godono già di forme di protezione come l’impossibilità di essere intercettati o di essere arrestati senza autorizzazione. Ritornare all’immunità parlamentare porterebbe a delle distorsioni. Il giudice non avrebbe neanche la possibilità di esaminare le accuse a carico di un soggetto.”
Tantissimi magistrati hanno profittato della loro fama mediatica per diventare uomini politici. E’ possibile fare tanti esempi di magistrati che hanno fatto carriera politica o hanno tentato questa strada. Ho sempre apprezzato l’opinione di Piercamillo Davigo, contrario a queste manifestazioni che possono ledere l’immagine della magistratura e pongono dubbi sulla sua imparzialità anche se, personalmente, ritengo che un magistrato sia anche un cittadino e che abbia diritto a far politica; ma questo soltanto a distanza di tempo dalla sua attività professionale. Insomma farlo ma con stile e senza far nascere dubbi. Lei, al riguardo, cosa pensa? E’ possibile dire che la delegittimazione dei giudici, in parte, sia avvenuta per loro mancanza di sobrietà e rettitudine e per queste invasioni di campo ripetute? Che opinione ha, lei, sulla possibilità che i magistrati facciano politica?
“Il magistrato che fa politica e quello che accumula fama mediatica sono due figure interconnesse ma si possono avere opinioni differenti. Il magistrato che raggiunge fame mediatica, prima o poi, sarà chiamato a fare politica. C’è stata una lunga stagione nella quale i partiti hanno trovato utile scegliere, nell’ambito della società civile, ad esempio nella magistratura, figure da cooptare al loro interno e creare con loro un rapporto di natura politica per averne consigli e opinioni qualificate. Secondo me l’aspetto della fama mediatica è stato enfatizzato perché se si osserva il numero dei magistrati che ne hanno goduto si può dire che è davvero scarsissimo. Il fenomeno, quindi, non è così diffuso come potrebbe far pensare il fatto che se ne parli; sembrerebbe quasi che buona parte dei magistrati acquisiscano fama mediatica. Ovviamente un magistrato non deve cercare popolarità attraverso manifestazioni pubbliche o televisive. Ci sono comunque delle regole, come la impossibilità di rilasciare interviste su indagini in corso; certo potrebbero esserne pensate delle altre ma i comportamenti di alcuni non devono diventare un alibi per affermare che tutti i magistrati fanno politica. Quanto al fare politica non c’è dubbio che, come qualsiasi cittadino, un magistrato ha il diritto di candidarsi ma non dimentichiamoci che nella costituzione esiste una norma, l’art.98, dove è scritto che si potrebbe, con legge, vietare l’iscrizione dei magistrati ad i partiti politici; norma che non è stata mai applicata. Evidentemente il legislatore costituzionale, un po’ ingenuamente, pensava che fosse sufficiente vietare la iscrizione ad i partiti politici. Solitamente il magistrato che decide di fare politica non è iscritto al partito. Relativamente al come normare la questione, al magistrato che fa politica si potrebbe porre l’alternativa di dimettersi dalla magistratura; potrebbe diventare una forma di incompatibilità. Cioè il magistrato che fa politica non può, poi, ritornare alla precedente attività; fermo restando che non si può condannare il magistrato che ha fatto politica a non avere più una attività professionale da svolgere e morir di fame. Avendo vinto un concorso pubblico si potrebbe pensare ad una ricollocazione con compiti e funzioni amministrative. I rimedi e i modi per regolamentare il tutto possono esserci; si tratta di studiarli e valutarli.”
In testa alla domanda precedente ho parlato di fama mediatica di alcuni magistrati e allora viene spontaneo discutere e chiederle opinione in merito al fenomeno che ha preso il nome, nel mondo del giornalismo, di “circo mediatico giudiziario”. Dominano la scena divulgazioni di intercettazioni e documenti di varia natura. Questo ha creato il fenomeno per il quale vi è condanna morale e pubblica per una semplice informazione di garanzia e non per responsabilità accertate e condanne definitive. Come pensa possano essere regolamentati i rapporti tra i giudici e i giornalisti, così da poter garantire un diritto all’informazione che, però, non diventi barbarie mediatica e non leda la riservatezza di una inchiesta?
“Questa è una specie di missione impossibile perché sono due interessi in conflitto tra di loro. Il diritto all’informazione, che il giornalista vuole pieno e illimitato, ed è un sacrosanto principio, può ledere la riservatezza; e allora trovare un punto di equilibrio è arduo ed è dimostrato dalle difficoltà che sta incontrando il legislatore nell’affrontare, ad esempio, la materia delle intercettazioni. Il problema del conflitto non nasce quando il processo è in dibattimento ma nella fase delle indagini. Si sta cercando la via del riportare negli atti la minor quantità di intercettazioni possibili; non per intero, quindi, ma soltanto le parti strettamente necessarie all’atto che si vuole compiere e segretare il resto in modo rigoroso; ma non è un percorso facile. Per esempio: chi può dire che una determinata parte di una intercettazione sia o no utile? Due persone parlano tra loro, si scambiano pettegolezzi, battutacce e informazioni piccanti su tizio o su caio. Poi parlano anche di temi riguardanti un caso di corruzione. Non si può dire che la parte iniziale dell’intercettazione non sia utile al mio lavoro di pubblico ministero perché potrei voler dimostrare che i due, apparentemente legati solo da rapporti professionali, in realtà sono in stretti rapporti di amicizia. Questo, ad esempio, potrebbe servire per contrastare una argomentazione della difesa, secondo cui i due si conoscevano appena. Quando, esaminando una intercettazione, si opera un copia e incolla togliendo alcune frasi viene falsato tutto il quadro. Questo è un esempio banale ma ci dice quanto sia difficile regolamentare la materia.”
La recente sentenza della corte di Strasburgo riguardante la vicenda di Bruno Contrada ha riaperto il dibattito sul famoso concorso esterno in associazione mafiosa. Mi corregga se sbaglio ma questa tipologia di reato nacque con una elaborazione giurisprudenziale che univa il “concorso” (art. 110) e “l’associazione mafiosa”(art. 416 bis), per punire chi portava benefici all’organizzazione mafiosa pur non facendone parte. Un reato dai confini molto labili per il quale non vi è un chiaro dizionario di ciò che comporta esserne colpevoli o meno e che ha lasciato spazi di manovra evidenti fuori da un contesto di “certezza del diritto”. Lo stesso Giovanni Falcone era molto critico addirittura sul modo in cui dovesse essere contestata l’associazione mafiosa stessa. Dopo aver imbastito il maxi processo grazie al reato associativo, egli si soffermò sulla necessità di non contestarlo mai in modo singolo ma a corollario di altri reati provati che facessero luce sulla effettiva responsabilità dell’imputato. I problemi che sarebbero scaturiti dalla semplice contestazione del reato associativo, vennero dallo stesso Falcone così anticipati e denunciati: “Non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta”. Può valere certamente ancor di più per il concorso esterno. Cosa pensa del concorso esterno e del suo utilizzo? Andrebbe rivisto?
“La corte di Strasburgo, nel caso di Bruno Contrada, ha ragionato in questo senso: la ipotesi di reato per il quale è avvenuta la condanna, il concorso esterno, non era sufficientemente chiara e definita e va considerata una condanna che non poteva essere irrogata. Ma i fatti sono rimasti incontroversi. La corte ha ritenuto che, all’epoca dei fatti, non fossero definiti i comportamenti penalmente rilevanti che devono essere certi. E’ una sentenza legittima ma che non tocca assolutamente l’impianto accusatorio. L’ipotesi di reato, parlando del concorso esterno, nasce dalla considerazione che in tutti i reati ci sono uno o più autori diretti e altri che concorrono. Da qui è iniziata una elaborazione giurisprudenziale molto intensa, molto sofferta e travagliata, che ha portato alla stabilizzazione nell’ordinamento di questa ipotesi di reato. Non è una invenzione nata dall’oggi al domani. Io credo che ormai non esista, oggi, il pericolo che si possano scambiare semplici elementi di indagine per elementi sufficienti per una condanna, perché abbiamo un punto di riferimento costituito dalla “sentenza Mannino” che ha fissato dei paletti, una soglia al di sotto del quale il concorso esterno in associazione mafiosa non è configurabile. I comportamenti, quindi, devono essere tali da rafforzare i propositi dell’associazione criminale. Se non c’è tutto questo il reato non è configurabile. Quanto alla opinione di Giovanni Falcone a me pare che egli non fosse contrario al concorso eterno in associazione mafiosa ma, attestandosi su una linea di estrema prudenza, sosteneva che configurare il reato di concorso esterno può essere particolarmente difficile e impegnativo sul piano investigativo, per rinvenire elementi probatori validi tali da sostenere l’accusa con successo. Ed è vero. Paradossalmente, con gli elementi a disposizione, è più facile provare l’associazione mafiosa che non il concorso esterno. Ma un conto è prospettare difficoltà nell’operare in tal senso, un altro è pensare che lui fosse critico a tal punto da rifiutare un utilizzo di tale strumento.”
Il processo sulla trattativa tra Stato e mafia domina la scena da anni. Terreno insidioso, certamente, ma di quei fatti vi sono alcune certezze. L’operato di Conso resta, a mio avviso, il simbolo principale di una stagione di cambiamento, dove la criminalità organizzata cercava nuovi punti di riferimento in luogo di vecchi contatti perduti nelle Istituzioni. Con Presidente della Repubblica Scalfaro si lascia terminare il regime del 41 bis per un numero spropositato di mafiosi. Un avvenimento che lascia pensare ad un accordo raggiunto. Il processo sulla trattativa ha avuto alti e bassi. Dopo anni e anni di attività inquirente, quali i punti fermi, quali le certezze che si sono raggiunte? Cosa pensa personalmente di questa vicenda? Vi fu, per lei, una trattativa tra lo Stato e la mafia?
“Mi sono occupato personalmente presso la Procura di Palermo di questa inchiesta, che ha avuto inizio nel 2008. Ho partecipato ad atti di indagine e udienze in dibattimento ed esprimo quindi una opinione derivante dalla mia esperienza diretta. Il processo è in corso e quindi sulla possibilità di un accoglimento delle richieste dei pubblici ministeri non posso dare opinione ma le tesi accusatorie, è bene ricordarlo, hanno superato il filtro della udienza preliminare; vi è stato, cioè, un giudice che, valutati gli elementi di prova offerti, li ha ritenuti sufficienti per sostenere una accusa in dibattimento. La sostanza di questo processo è che negli anni che vanno dall’omicidio Lima fino alla fine del 1993, e una piccola parte dell’inizio del 1994, si verificarono, all’interno del sistema statale nel suo complesso, tutta una serie di fatti difficilmente spiegabili senza ipotizzare il tentativo dello Stato di arrivare ad un accordo con la mafia. L’offensiva mafiosa era stata violentissima: la strage di Capaci, di via D’Amelio, le stragi che avvennero nel territorio nazionale. Queste, secondo il punto di vista dell’accusa, determinarono l’intento dello Stato di arrivare ad un accordo, cercando la cessazione delle stragi e offrendo una contropartita. Nel campo del 41 bis, appunto, sono state rivelate delle anomalie che non si spiegano. Le attuali accuse che vengono mosse all’ex ministro Conso, provvisoriamente stralciate perché non si può procedere per il reato che gli viene addebitato se prima non viene definito il procedimento principale, riguardano appunto queste anomalie che si registrarono relativamente al 41 bis ma, ripeto, sono solo ipotesi accusatorie e bisognerà seguire gli sviluppi del processo.”
Una delle vicende più importanti avvenute in relazione a questo processo è stata la distruzione delle intercettazioni telefoniche che riguardavano l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; egli, un anno dopo, verrà ascoltato come testimone negando di esser stato a conoscenza di una trattativa. Cosa pensa di questo avvenimento?
“Intanto specifico che le intercettazioni riguardavano conversazioni tra l’ex Ministro Mancino e Napolitano e, non lo dimentichiamo, l’intercettato era Mancino che non aveva nessuna qualità che lo tenesse fuori dalla possibilità di essere intercettato perché non era neanche parlamentare. Questa vicenda, i fatti sono notissimi, ha determinato un conflitto di attribuzioni ritenendo che la procura di Palermo, nel valutare il contenuto di queste intercettazioni, sia pur per escluderne una valenza, avesse violato le prerogative presidenziali. Vi è stato un giudizio della corte costituzionale che ha accolto questo punto di vista ed ha disposto la distruzione. Questo, però, è avvenuto senza passare dall’udienza che normalmente viene fatta per distruggere le intercettazioni; una udienza davanti al GIP. In questo caso è stato disposto che avvenisse con una udienza segreta senza la presenza di nessuno, neanche del PM. Gli studiosi di diritto costituzionale hanno espresso, su questa sentenza, valutazioni difformi e contrastanti, ma entreremmo in un ambito di estremo tecnicismo e di difficile analisi.”
Vorrei chiederle opinione su una vicenda importantissima: quella relativa al falso pentito Scarantino e alle sue dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio rimaste in piedi fino a quando, comparso Gaspare Spatuzza, la Corte d’appello di Catania scarcerò i tanti condannati. Diciassette anni di attività vennero spazzati via. Una doccia fredda; ma non per tutti. Occorre narrare che Ilda Boccassini, durante il lavoro svolto a Caltanissetta, produsse una relazione con Roberto Saieva, nell’ottobre del 1994, dove Scarantino veniva definito un mentitore e dove si avvertiva che non vi era da fidarsi; bisognava verificarlo. Ma, dopo poco, ella tornò a Milano e, senza verificare il pentito, le indagini proseguirono, tra gli altri, con Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo. Scarantino, anni dopo, ritratterà dicendo di essere stato costretto a fare dichiarazioni false da Arnaldo La Barbera, dirigente della squadra mobile di Palermo. Racconterà anche di trattamenti carcerari da tortura, a Pianosa. Ma i magistrati considerarono le sue ritrattazioni strumentali, volute da qualcuno. La Boccassini, alla comparsa di Spatuzza, dichiarò: “Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, oggi non saremmo arrivati a questo punto”. C’è chi ha sostenuto che Scarantino sarebbe stato utilizzato volontariamente per depistare le indagini ma di contro è possibile, a causa di quell’avvertimento della Boccassini ignorato, osservare, forse, una volontà di non verificare il pentito per assecondare una tesi investigativa. Lei ha possibilità di esprimere una opinione su questi fatti? Perché le intuizioni della Boccassini, messe nero su bianco, sul fatto che Scarantino fosse un mentitore, non vennero prese in considerazione? Cosa è accaduto, in tutti questi anni, attorno al collaboratore, falso pentito, Scarantino? E cosa pensa di Gaspare Spatuzza?
“Posso dare opinione su fatti di cui mi sono occupato professionalmente e, su Scarantino, non posso dir nulla perché non l’ho mai interrogato e non ho avuto occasione di avere contatti di carattere professionale con le vicende che lo riguardano. Ho partecipato, invece, ad alcuni interrogatori di Spatuzza e mi pare che il suo sia un pentimento sincero, nato da una vera e reale crisi e non da interessi personali. Mi ha fatto questa impressione; mi è sembrato realmente pentito. Negli anni in cui sono stato a Caltanissetta non vi era alcuna indagine preliminare in corso che riguardasse Scarantino e, prima del pentimento di Spatuzza, erano state emesse varie sentenze che non si pensava potessero essere messe in discussione.”
La credibilità di una certa area investigativa e, di conseguenza, del processo sulla “trattativa” ha subito attacchi; ipotesi che hanno visto arretrare certezze anche dall’assoluzione del Generale Mori per la mancata cattura di Provenzano. Nasce un periodo di luci e ombre e, poi, di attenzioni mediatiche con minacce ai magistrati come quelle di Riina dal carcere di Opera; ma, ad esempio, Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, scriverà: “le minacce di Riina, sostiene più di un PM, sono state utilizzate anche mediaticamente per rilegittimare un processo che era stato incrinato”. C’è chi, come Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, ha prodotto opinioni molto critiche relativamente al processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia e all’operato dei magistrati. Il loro saggio “La mafia non ha vinto” argomenta circa il fatto che l’impianto accusatorio non reggerebbe; tra ambiguità e coni d’ombra. Altri addetti ai lavori, invece, come Marco Travaglio, hanno scritto molto in favore delle tesi investigative. Ricordo un suo essere contrariato dal saggio di Fiandaca. Può darci una opinione in merito?
“Se non ricordo male il professor Fiandaca, anche in un suo saggio precedente a quello citato, argomenta che quand’anche vi fosse stata una trattativa sarebbe stata una buona operazione perché sarebbe stata rivolta a scongiurare le stragi; in un certo senso la promuove e ne fa un fatto positivo. Io sono sempre stato in dissenso: non ritengo che trattare con la mafia dopo le stragi, come quella di Capaci, sia un fatto positivo e moralmente accettabile. Lo Stato non deve trattare ma attrezzarsi per combattere. Poi, se si trattò di una cosa apprezzabile, perché non ammetterlo? Se siamo in presenza di un atto positivo perché non dirlo? Si potrebbe dire che hanno trattato perché era utile. Questo apprezzamento è, per me, un punto di dissenso assoluto. Poi è difficile addentrarsi; vi sono, nel saggio, altre argomentazioni che si muovono su aspetti giuridici molto complessi.”
Relativamente a tecnicismi, sull’operatività: è permanente, ormai, il dibattito sul processo penale e i suoi tempi. Arrivare al giudizio è fondamentale nel diritto; esso ha, infatti, funzione di garanzia e tutela. Le richieste di un processo “veloce” sono sconfinate nel pericoloso fenomeno del non curarsi della qualità dei metodi, e dell’affidabilità dei risultati raggiunti, pur di avere sentenza in tempi brevi. Come si può conciliare il tempo necessario per le indagini, ed il giudizio, con le richieste di celerità provenienti dalla società civile?
“Si possono fare degli aggiustamenti, allegerendo qualche norma procedurale; e si potrebbe intervenire seriamente sulle strutture, che sono molto trascurate. Ma non sarebbe decisivo. Se si vuole risolvere il problema c’è una sola via: ridurre il più possibile la domanda di giustizia. Noi abbiamo una domanda enorme di giustizia rispetto all’offerta e cioè quello che i giudici possono fare nell’unità di tempo. Il confronto è drammatico. Le statistiche ci dicono che ogni anno vengono istruiti ed evasi quasi lo stesso numero di processi ma la realtà è che i processi evasi, nella maggior parte, sono quelli di più facile soluzione. I processi complessi, lo zoccolo duro, rimane. Allora c’è un solo modo: restringere l’area del diritto penale in modo brutale. Fare quello che si può arrivare a fare. Concentrarsi sui fatti più gravi lasciando tutto il resto ad altre forme di repressione. Il processo penale è la forma più costosa e inefficiente per la repressione. Certo per l’omicidio, l’estorsione o la rapina il processo penale è decisivo; ma per cose meno gravi vi possono essere strumenti come le sanzioni di Stato. Facendo un esempio: una ipotesi di rimozione dall’incarico procurerebbe, per il reo, molta più preoccupazione rispetto ad una condanna, magari lieve, con condizionale, giunta in seguito a regolare processo. Si dovrebbe avere la forza ed il coraggio di restringere al massimo l’area dell’azione penale nei limiti di quello che i giudici possono definire. All’obbligatorietà non si vuole rinunziare ma si possono mediare delle soluzioni per i processi riguardanti fatti poco gravi, come le diatribe tra vicini di casa. Naturalmente bisogna accettare che tutta una miriade di piccoli fatti, in questo caso, non verranno più repressi. Ma se vogliamo processi celeri su fatti seri dobbiamo rinunciare a portare davanti al giudice questioni di scarsa entità. La via da seguire è questa.”
Una delle diatribe storiche sulla Giustizia è la possibilità di riformarla separando le carriere della magistratura inquirente e di quella requirente. Giovanni Falcone, nel 1991, parlò di una necessaria e specifica formazione professionale della figura del pubblico ministero, diversa per esperienze, competenze, capacità, preparazione, anche tecnica, da quella del giudice che è figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Altra importante questione, come accennato nella sua precedente risposta, è quella dell’obbligatorietà dell’azione penale. Cosa pensa al riguardo di questi temi? La magistratura andrebbe riformata? E come?
“Tornando al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale questo, è importante dire, è un principio di garanzia per tutti. Si era pensato di operare attraverso criteri di priorità. Stabilire dei criteri, fermo restando l’obbligo dell’azione, che indichino una scaletta dell’importanza dei processi da istruire prima degli altri. Ma questi lasciano sempre il problema che il processo messo per ultimo avrebbe una bassa probabilità di esser portato davanti al giudice. E’ una tematica difficile. D’altra parte la piena discrezionalità dell’azione penale non è pensabile. Relativamente alla separazione delle carriere devo dire che se ne parla sempre meno perché , di fatto, le carriere sono state separate. Vi sono degli sbarramenti così rigorosi che i passaggi tra la requirente e la giudicante sono rarissimi. Per passare da un ufficio ad un altro bisogna, ad esempio, cambiare regione. Qual è quel magistrato che da anni opera nella sua città, dove ha il centro dei suoi interessi, che accetta un trasferimento di regione? Succede ancora per i magistrati in prima sede che, per tornare alla città natale, possono far domanda per tornare nella propria regione; ma una volta scelta la requirente o la giudicante, poi, per cambiare nuovamente dovranno ancora cambiare regione. Tanti anni fa era molto facile passare da una carriera all’altra, oggi sarebbe visto come uno scandalo. Per questi motivi, oggi, ripeto, il problema si è attenuato moltissimo. Quando si parla di separazione si intende dire che si vorrebbe separare anche l’ingresso in magistratura e avere, per di più, due CSM. Io sono stato sempre contrario. La mia esperienza mi dice che fare il giudice mi ha fatto imparare cose utilissime da utilizzare nella azione inquirente. E’ importante che un giudice abbia una preparazione a tutto tondo anche se, successivamente, è bene che si specializzi. Imprigionarlo inizialmente in un ruolo da cui non può più uscire non è corretto. Abbiamo l’esempio di Falcone che non era favorevole alla separazione; è una leggenda. Era favorevole alla specializzazione del pubblico ministero ritenendo che questo dovesse essere formato in modo particolare. Di fronte agli impegni enormi della magistratura nascenti contro la mafia, lui pensava ad una formazione specifica ma non pensava che vi dovessero essere separazioni di ingresso in magistratura. Io trovo che la separazione abbia un rischio e cioè il creare una figura di PM che non abbia piena cultura della giurisdizione; sarebbe un super avvocato col solo intento di vincere il processo. Poi, un PM separato non potrà più essere autonomo. In questo momento il PM ha le stesse garanzie dei giudici; diversamente si aprirebbero problematiche ampie in tal senso. Su come andrebbe riformata la magistratura, devo dire, è uno scenario talmente ampio e complicato che è difficile poter fare valutazioni, tali sono gli attori e le posizioni ideologiche che si intrecciano. Ci possono essere punti di vista politici ma pretendere di dare opinione su una possibile riforma del funzionamento della magistratura è davvero arduo.”
Il fenomeno corruttivo ha avuto varie e distinte fasi con caratteristiche diverse nei metodi, nei fini, nella sostanza. Metamorfosi più importante è stata quella che ha portato alla netta differenza tra la corruzione di oggi e quella di ieri. Oggi essa ha fini personalistici mentre ieri si rubava per il partito. Chi scrive ha al riguardo una opinione che tende a riflessioni sociologiche. Vi è un humus, nel Paese, per vari fattori che si sono interconnessioni, come la mancanza di meritocrazia, che rendono l’animo di molti cittadini corrompibile. Ho sempre pensato che la corruzione non possa combattersi solo con la repressione, ad esempio aumentando le pene, ma attraverso un processo culturale che porti quell’humus, appunto, ad arretrare. Quale è la sua opinione al riguardo del fenomeno corruttivo? Tecnicamente cosa pensa dell’ultima normativa anticorruzione? Come andrebbe combattuto, per lei, questo fenomeno?
“L’aumento delle pene non è decisivo ma male non fa. Intanto consente di attivare diversi percorsi di giustizia e quindi è positivo sotto il profilo di una migliore repressione. Nessuna legge è perfetta. La corruzione nasce da una somma di fattori; uno di questi è la discrezionalità di certe scelte amministrative. Vi è troppo potere economico e libertà decisionale. L’amministratore che non è controllato è libero di operare come vuole per ottenere determinati vantaggi. Bisognerebbe riformare la burocrazia. La repressione penale ci vuole ma diciamo che quando arriviamo al processo è un momento di patologia, perché la corruzione si è ormai verificata. La strada principale sarebbe pensare una serie di norme per prevenire la corruzione all’interno della struttura. Creare paletti molto seri, come una perimetrazione dei poteri discrezionali degli amministratori, poterli sottoporre al controllo di organismi che dovrebbero farsi carico di controllo incrociati. Ad esempio uno strumento utile sarebbe esigere il rispetto dei tempi di evasione delle pratiche negli uffici per arginare la problematica delle pratiche dormienti che vengono evase solo sotto tangenti. Creare uffici ispettivi interni, corpi che operino controlli frequenti sugli indici di anomalia dell’attività di un ufficio. E’ un percorso difficile, forse nulla estirperebbe completamente la corruzione; ma si potrebbe operare a ridurla facendo un riordinamento interno del funzionamento della pubblica amministrazione.”