Brandelli di carne umana italiana ovunque; una baia, un mare incantato diventato rosso porpora: il rosso della morte. Sangue, arti; pezzi di corpi che galleggiano, altri che iniziano e finiscono in modo informe, a ricoprire una spiaggia dove la sabbia è mista alle budella; una spiaggia che è stata il teatro della più incredibile macelleria di civili italiani in tempo di pace di cui si abbia memoria. O, sarebbe meglio dire, di cui non si ha nessuna memoria: solita vergogna italiana. Brividi, lungo la schiena, a pensare al piccolo Renzo. Nella sua bara verrà posta solo una piccola scarpetta: tutto ciò che del suo corpicino polverizzato venne ritrovato. Del fratellino Carletto la mamma riuscì a riconoscere il corpo dilaniato e smembrato. Quasi cento corpi ridotti a budino, altri cento mutilati; per la colpa più grave: essere italiani. Sporchi italiani da cacciare via da una terra d’Istria che aveva d’esser ripulita. Che se soltanto fosse stata opera nazista la si sarebbe studiata, questa strage, e commemorata in ogni dove; e sarebbero nati film, documentari, libri, giornate della memoria. Ma è una strage comunista, una delle tante. E, come per le altre, ciò che è nato è l’oblio, la censura, la vergognosa opera antistorica che rende tributo ai carnefici, umilia i martiri ed elimina al principio la possibilità di autocoscienza storica, consapevolezza, narrazione dei fatti e quindi tributo, ricordo, commemorazione.
18 agosto 1946: la guerra è finita. Gli alleati non hanno ancora abbandonato le terre al confine orientale. L’onda d’urto della inaudita violenza comunista è contenuta; ma presto diventerà incontenibile. Il maresciallo Tito ha ordinato di ripulire in tutti i modi il territorio dagli italiani che non intendono abbandonare le proprie case, la propria terra. Quel lembo di Italia deve diventare Jugoslavia, come a Parigi si dice. Molti, i pessimisti, hanno già capito che il governo italiano cederà e sono fuggiti. Altri sperano, rimangono, si augurano che qualcosa possa salvarli da un esodo che sarà immenso nella sua tragedia. Abbandonare le proprie case, i propri averi, le proprie città? Mai! Resistere e sperare; che altro? Questi, i rimasti, rivendicano con orgoglio la propria italianità. Ed è in una calda giornata d’estate che la popolazione dell’italiana Pola si reca in massa sulla spiaggia di Vergarolla. Dopo le bombe e l’orrore della guerra c’è voglia di pace e di normalità: si tengono le tradizionali gare di nuoto: è la Coppa Scarioni organizzata dal circolo canottieri. Una giornata di spensieratezza, di sorrisi, di voglia di vivere. Una giornata per dire: siamo italiani e siamo qui. La vita continua. Donne, bambini, anziani si recano alla spiaggia per godere del sole estivo e dimenticare per un attimo le paure e le incertezze del futuro.
Ventotto mine; dieci tonnellate di tritolo: questa la carica di morte che si trova in spiaggia. Ma tutti lo sanno e la popolazione non se ne preoccupa. Quelle mine, infatti, poggiate in un angolo, sono disinnescate e giacciono in spiaggia dimenticate. Sono quasi, ormai, un simbolo, un ricordo del dolore, della guerra che non c’è più. Sono diventate parte del tutto. Ma poco dopo le ore 14 le mine esplodono: qualcuno le ha innescate. Figli d’Italia dimenticati si polverizzano letteralmente senza accorgersene. I più sfortunati vengono dilaniati ma restano coscienti. Sopravvissuti rovistano tra la carne umana, urlando, per cercare i propri cari: non si sa se per fortuna o sfortuna alcuni ne trovano dei pezzi. Quella strage è il giro di boa. Da li, dalla mollezza alleate nel ricercare i colpevoli, dalla consapevolezza di non essere protetti, la popolazione italiana, in massa, capisce che se non scappa sarà sterminata. Già tanti erano stati infoibati ma era, a quanto pare, solo l’inizio di un genocidio italiano. L’esodo divenne un obbligo per sopravvivere. Nel mentre, in Italia, l’Unità, il quotidiano del PCI titolava: “gli anglo-americani responsabili della strage di Pola”. La consueta mistificazione dei carnefici.
Qualche settimana prima della strage, sul quotidiano “L’arena di Pola”, in un articolo dal titolo “O l’Italia o l’esilio”, Guido Miglia scriveva: “Il nostro fiero popolo lavoratore, quello che pure aveva creduto nella democrazia e s’era ribellato ad ogni forma di schiavitù, abbandonerebbe in massa la città se essa dovesse sicuramente passare alla Jugoslavia, e troverà ospitalità e lavoro in Italia, ove il governo darà ogni possibile aiuto a tutti questi figli generosi che preferiscono l’esilio alla schiavitù ed alla snazionalizzazione. A Pola rimarranno forse alcune migliaia di fanatici che, dopo alcune settimane di occupazione jugoslava, si pentiranno atrocemente di tutto il male fatto da loro e cercheranno allora di sfuggire alla persecuzione violenta ed all’oppressione. E proprio perché sanno che a loro toccherà questa sorte, e per continuare ad essere dei gerarchi della “minoranza” italiana, fanno ogni sforzo per convincere la gente a rimanere in città; dopo averla terrorizzata con un anno di propaganda bestiale, con deportazioni in massa di innocenti e con lancio di uomini vivi nelle foibe, fra lo sghignazzare di alcuni ubriachi di sangue”.
Purtroppo, come nessuno poteva mai aspettarsi, l’Italia non aiutò affatto i propri figli che fuggirono per continuare a vivere sotto il tricolore. Campi profughi, povertà, violenza deliberata come nella rossa Bologna, dove il treno degli esuli venne preso a sputi da una massa di violenti ammaestrati che accusavano i poveri istriani di essere fascisti. Una storia di vergogna e di silenzi, durati 50 anni. Con centinaia di migliaia di persone che subirono l’onta, qualche anno dopo, di vedere il proprio Presidente della Repubblica Sandro Pertini recarsi ai funerali del carnefice Jugoslavo Tito e baciarne la bara: tributo per affinità ideologica e politica. Su questo si fonda la Repubblica che tutti oggi conosciamo. Sul venerare un uomo per una foto allo stadio. Un uomo che ha baciato la bara di chi ha sterminato gli Italiani, ordendone il genocidio. Orge di retorica, vomitevole falsità: vere pietre fondanti di un Paese; e i risultati si vedono ogni giorno di più.
C’è un uomo, che è diventato simbolo di quel giorno, il giorno della strage. E’ un medico: è Giuseppe Micheletti, Triestino. La sua storia, come quella dell’esodo istriano e dello sterminio degli italiani nelle foibe, è parte dello spettacolo “Magazzino 18”, di Simone Cristicchi. Una storia importante che è gusto narrare perché un popolo ha il dovere di commemorare i propri eroi. Giuseppe è il papà di Carletto e Renzo, i bambini di cui ho parlato all’inizio dell’articolo. Il boato lo raggiunge mentre, come ogni giorno, lavora in ospedale. Giungono le voci, i racconti, di ciò che è accaduto. Nasce un via vai frenetico tra l’ospedale e la spiaggia. Giuseppe non trova i suoi figli; non sa ancora che non esistono più. Poi la verità emerge. A perdere la vita, oltre ai bimbi, anche il fratello e la cognata. Ma non può, in quell’apocalisse, tirarsi indietro: è un medico. Ore ed ore a curare i feriti, salvare esseri umani feriti ma sopravvissuti. In modo instancabile, senza fermarsi un attimo, Giuseppe presta la propria opera per più di ventiquattro ore consecutive. Medaglia d’argento al valor civile, oggi quest’uomo è ricordato da un monumento in Piazzale Rosmini, a Trieste.
Dopo la strage il medico decise di fuggire verso l’Italia. “Non posso continuare a vivere qui – disse – non vorrei ritrovarmi un giorno, senza saperlo, a curare gli assassini dei miei figli”.
E’ la storia di un italiano vero, simbolo della strage dimenticata. Una storia che appartiene a tutti noi, ci dice chi siamo e quanta dignità c’è nell’anima di chi ha lottato, in passato, ed è morto per essere italiano; per amore della Patria italiana. Dio solo sa quanto sia importante, proprio oggi, non dimenticarlo mai.