di Piero Genco
Se c’è una cosa che accomuna gli uomini di ogni epoca di sicuro è quella cosa che segna uno stato nascente, l’emozione della terra scorta la prima volta, del luogo in cui ambientare il sogno di un’esistenza felice.
Questo avrà provato Pammilo, l’ecista megarese, il fondatore di Selinunte, quando mise piede su un promontorio prospiciente il mare, dove avrebbe posto le fondamenta di una città sospesa fra due fiumi.Uno di essi, ricco di “selinon”, il sedano selvatico, diede il nome al corso d’acqua e al sito. Si era spinto in profondità Pammilo, in quel lembo occidentale di Sicilia, lì dove l’isola sposa il mare africano. Di fronte c’è Cartagine, a est la patria Megara, tutt’intorno colonie e regni di Sicani, Elimi e Fenici: una terra generosa di messi e turbolenta d’animo, ricca, bella, prospera, crocevia di culture e commerci.
Qui avrebbe, come prima cosa, dedicato un santuario alla dea della terra, della fertilità, del raccolto, Demetra: e allora le sacre lance infisse nella terra e il tempio e finalmente un altare per adorare gli dei e confortare gli animi erranti. Quasi contemporaneamente altri due santuari sarebbero sorti, oltre i due fiumi, da un lato e dall’altro, verso ovest per le divinità ctonie, verso est per le divinità celesti. E qui, sulla collina orientale tre magnifici templi, di cui uno grandioso, per glorificare al massimo la potenza di Zeus e per mostrare al mondo la magnificenza della città. Per due secoli, nonostante le guerre contro la nemica Segesta, fu inarrestabile la scalata di Selinunte al potere.
Qui si impiantò un organizzatissimo impianto viario, mura, piazze e portici; vi si costruì un grandissimo quartiere ceramico, una vera e propria industria dell’antichità. Subito vi fu un confluire di sapienti e musici e poeti e architetti e scultori ad erigere la magnifica acropoli, le mura possenti; e ancora templi e commerci e poesie e riti nuovi ed arcaici e finissime manifatture.Dalle cave di Cusa si estrassero gli ultimi blocchi, ancora depositati lì, quasi ad attendere che forze ciclopiche li strappino alla terra per completare l’opera monumentale del tempio incompiuto, gigantesco.
Qui il paesaggio sembra essere rimasto tale come un tempo, qui sembra di sentire ancora l’odore delle messi feconde e il vino; qui sembra ancora di vedere le navi nel porto e fanciulle sacre e profane, vestali, mogli e concubine, padri e figli e sacerdoti e poi Empedocle il saggio, venuto dal mare per scacciare la malaria e poi ringraziato e omaggiato come un dio.Ma una simile potenza non poteva non attirare l’invidia degli dei e la loro azione sarebbe stata lesta ad arrivare. Eccole, Segesta e Cartagine alleate nella guerra disastrosa del 409 a. C., che avrebbe preso d’assalto la città. Nove giorni d’assedio: l’assalto, le mura, le donne violate. Lo sterminio, il sangue, l’incendio, la devastazione i superstiti schiavi e i deportati. Ma Selinunte sarebbe stata rioccupata e ricostruita, con mura più forti di prima, con un sistema difensivo d’avanguardia, con torri, gallerie e fossati.
Ci sarebbe stata un’altra rinascita dopo quella data, sotto altri padroni, prima punici e poi greci e poi di nuovo punici, altri santuari, altre costruzioni, altri dei su pavimenti a mosaico. L’arrivo dei Romani troverà una città provata, tanto che i Cartaginesi decisero di trasferirne la popolazione a Lilibeo nel 250 a.C., ma l’utilizzo dell’area continuò e la sua attività commerciale non si arrestò. Selinunte ancora vive, e le scoperte archeologiche ci dicono tanto ogni anno e ancora continuano a stupirci. Oggi, a distanza di 2500 anni, tra le mute rovine del passato i selinuntini sono ancora lì, fra il mare e le colonne, nel vento caldo di scirocco e nelle notti di plenilunio, e narrano al mondo un sogno di pietra chiamato Selinunte.
(Scritto già pubblicato sul sito internet Vanilla Magazine)