L’epoca che stiamo vivendo sta suscitando sentimenti di sconforto, smarrimento e frustrazione. I processi sociologici e di cambiamento hanno dimensione globale, certo; ma nel nostro piccolo, come cittadini italiani, vediamo il nostro Paese protagonista di un declino inarrestabile. Relativamente a queste tematiche, tra i pensatori più influenti del panorama nazionale vi è certamente Marcello Veneziani. La sua storia professionale parla da sola. Molti, sbagliando, per la sua vicinanza alla destra italiana e le sue argomentazioni, lo considerano un giocatore con una casacca; inteso come un uomo, quindi, che può parlare solo a una parte dell’Italia. Ma siamo sicuri che oggi, in questa frana che trascina tutto e tutti, il concetto di “patria”, ad esempio, sia un qualcosa considerabile di destra? Era falso e stupido già in passato; ma lo è certamente adesso, in un momento storico dove l’antipolitica ha fatto osservare motivi di convergenza e sentimenti comuni tra persone di destra o sinistra, indistintamente.
Sembra essere pensato in questa ottica proprio l’ultimo libro del giornalista di Bisceglie,“Lettera agli italiani”, attraverso il quale lui parla a tutti i cittadini, e non ad una sola parte, nella speranza di far nascere sentimenti di amore e di rinascita. “L’Italia è il mio popolo e non riesco a fare eccezioni, quelli del nord o del sud, quelli di destra o di sinistra”– e ancora – “l’Italia è il ragazzo immigrato che si sente italiano”, queste alcune tra le parole più belle. Per la prima volta Veneziani ha deciso di presentare un suo libro con una formula nuova, che lo mettesse a contatto con la gente. Una rappresentazione teatrale: sul palco un “Comizio d’amore” per questa nostra meravigliosa Nazione in difficoltà. Ci siamo incontrati a Trapani, dove era in programma una tappa del suo tour. E’ stata l’occasione per parlare di svariati temi, dall’etica alla politica, ripercorrendo concetti da lui trattati nel libro; per comprendere le ragioni che hanno portato l’Italia a questo declino e per capire cosa possiamo fare noi cittadini, nel nostro vivere quotidiano, per arrestarlo, invece che vivere di sola nostalgia per un tempo fiorente che non c’è più; perché, come lui dice, “quando il futuro si svuota e si riempie il passato, non resta che rovesciare la clessidra”.
Marcello Veneziani in giro per l’Italia, da nord a sud, con uno spettacolo teatrale alla ricerca del patriottismo perduto, del senso di comunità, dell’italianità. Per risvegliare e rilanciare questa Italia malata e morente. Come nasce l’idea di questa formula e quale obiettivo spera di raggiungere?
Mi ero stancato di presentare libri attraverso la formula consueta della conferenza o del dibattito e ho pensato che la cosa migliore, in un’epoca che ama lo spettacolo e la visualizzazione delle idee, fosse di rappresentarlo a livello teatrale. Un monologo sul palco, accompagnato da immagini, musiche e letture, per cercare di trasmettere il desiderio e la passione per l’italianità. Desiderio “ferito”, possiamo dire, perché ciascuno di noi vive la sofferenza dell’italianità: spesso malediciamo il nostro Paese. Anche io talvolta lo faccio, ma la scommessa di ripensare all’Italia si sente come una priorità per ricostruire una comunità lacerata.
Nel suo libro descrive l’Italia del passato e quella nascente mettendo a confronto due tipologie di cittadini: gli italiani e gli “italieni”; nuovi cittadini che si stanno sostituendo ai primi. Quali sono, brevemente, le differenze tra i due? Cosa distingue gli italiani e gli “italieni”?
Gli “italieni” sono solitamente single mentre gli italiani erano familisti. Gli “italieni” sono ipocredenti, nel senso che credono poco, mentre gli italiani, seppur in modo contraddittorio, erano credenti; nella fede ma anche nelle fedi politiche. Gli “italieni” hanno tendenza al narcisismo, usano il “selfie” come comunicazione principale mentre gli italiani, invece, avevano una visione più comunitaria, collettiva, meno legata alla propria individualità. E poi ci sono tanti altri tratti che io traccio in questo libro perché “italieno” vuol dire, appunto, alieno; e cioè un extraterrestre che si sente più nativo digitale che nativo della sua patria. Esso si sente più legato alla propria contemporaneità e al proprio tempo che al luogo in cui è nato: questa credo sia la fondamentale differenza.
Incastonata nella nostra storia come evento che ha costituito l’humus fondamentale per la nascita di un sentimento patriottico è stata la prima guerra mondiale. Cittadini di ogni estrazione sociale e provenienti da ogni latitudine si trovarono a condividere il fuoco e il gelo delle trincee, diventando comunità unita. Al termine della seconda guerra mondiale e del fascismo, invece, si affermò l’egemonia culturale del PCI che bandì la parola patria considerata bestemmia. “I proletari non hanno patria”- dicevano i compagni. Oggi non festeggiamo neanche le date più importanti della nostra storia, come il 24 maggio; è grottesco ma molti cittadini neanche le conoscono. In quale misura questo processo culturale antipatriottico, portato avanti dalla sinistra comunista, ha contribuito al declino della Nazione? E quali altri fattori hanno contribuito?
Sicuramente la cultura comunista ha avuto un ruolo determinante ma non unico. Le tre culture prevalenti al termine della seconda guerra mondiale sono state tutte di estrazione a-nazionale se non, addirittura, antinazionale. Mi riferisco alla cultura cattolico-democristiana, quella laico-liberale e quella social-comunista. Erano tre culture fondate su una visione non legata alla Nazione e all’identità nazionale ma, al contrario, sul desiderio di rimuovere il richiamo patrio. Nel nostro Paese abbiamo vissuto clandestinamente, quasi vergognandoci dei suoi simboli e delle sue immagini. Certo, c’era il trauma di una guerra perduta, c’era l’aspetto problematico dell’eredità del fascismo; ma al di là di tutto questo c’era la convinzione che i grandi temi e le grandi questioni non dovessero più passare dall’idea di Nazione e di sovranità nazionale. Riproporre oggi il tema dell’identità credo sia un atto necessario che è possibile fare anche attraverso il ricordo di quell’evento tragico, ma necessario, in cui un popolo si scoprì Nazione, che fu appunto la prima guerra mondiale.
Europa: mito retorico e intoccabile è il multiculturalismo. Vietato muovere critiche pena l’esser proscritti come razzisti. Il principio sarebbe stupendo, fonte di amore verso ogni individuo, e vedrebbe l’apporto di ogni cultura allo scopo del bene universale. Ma il suo perseguimento ha aperto ad una nuova interpretazione malefica. Non vi è stata valorizzazione e comunione delle ricchezze derivanti da varie culture, bensì distruzione di ognuna esse. Al loro posto il meticciato culturale e la creazione di un ibrido: “l’uomo nuovo”, anglofono e consumatore, che non ha riferimenti nel passato che lo proiettino nel futuro. Il presente, quindi, è il caos. L’antropologa Ida Magli, con una dichiarazione di un certo peso, ha parlato di “volontaria uccisione degli europei da parte dei nostri governanti che ci odiano”. Cosa pensa di questo multiculturalismo? C’è davvero un disegno oscuro alle spalle o quello che stiamo vivendo è il frutto di un processo casuale della storia?
Io, innanzi tutto, devo dire che non credo ai grandi disegni e ai grandi complotti. Credo al combinarsi di vari fattori, un processo più grande, in cui si intersecano varie volontà. Siamo nell’epoca dove vi è il dominio della tecnica e della finanza, di conseguenza tutto ciò che ne è fuori è considerato marginale. Il male peggiore dell’Europa, io credo, non sia tanto la prevalenza di un fenomeno multiculturale ma, appunto, proprio la sua “deculturazione” e cioè il fatto che la cultura non conti più nulla. Noi non siamo cittadini europei ma debitori verso l’Europa. Il nostro unico rapporto attivo è rappresentato soltanto dalla configurazione del debito. Mancando altri riferimenti, e mancando un piano di integrazione europea che si sviluppi attraverso le civiltà presenti al suo interno, ci ritroviamo soltanto ad essere degli utenti, dei consumatori e soprattutto dei debitori: questo ha impoverito l’Europa. Non è la sua idea che ci spaventa; anzi ci affascina! Come non ci spaventa la civiltà europea che avremmo voluto affermare attraverso il “soggetto politico Europa”. Ma la verità è che l’Unione europea non si è fondata su paradigmi politici e non ha nessun atto costitutivo fondato sulle sue matrici romane, greche e cristiane. Si ritrova oggi, quindi, ad essere un consorzio fondato su elementi tecnico-finanziari.
Dopo la strage di Parigi si è riaperto il dibattito sulle tradizioni religiose. Da anni domina la scena una apostasia del cristianesimo portata avanti attraverso la scusa del laicismo. Un laicismo talebano, violento, che è stato sbandierato non per tutelare, giustamente, le diversità religiose che possono e devono coesistere, con pari diritti, in un stato laico, bensì con lo scopo di distruggere la cultura cristiana da parte di chi la odia. La mancanza di riferimenti alla cultura cristiana nella Costituzione dell’Unione Europea la dice lunga e ciò ha provocato ricorsi nelle più disparate sedi per mettere al bando, ad esempio, i simboli religiosi. Quale è il suo pensiero su questa delicatissima tematica?
Noi siamo certamente succubi di quella visione tecnico-finanziaria di cui parlavo prima ma, dall’altra parte, di culture – penso a quella massonica – che hanno avuto una parte fondamentale nella costituzione dell’Europa. Di conseguenza non è riconosciuto alcun posto alle nostre matrici di civiltà. Io ho un approccio laico nei confronti della cristianità e non mi pongo il problema della fede cristiana; perché questa attiene ai popoli e alle persone. Ma è un fatto oggettivo che l’Europa non è pensabile senza quelle matrici: senza le cattedrali, la cultura, la lingua; o senza l’esempio di alcuni santi, come San Benedetto, che hanno fondato un sapere europeo. È questo il tema che mi pongo: la civiltà europea ha fatto a meno di uno dei suoi capisaldi e cioè il richiamo ad una tradizione cristiana, che può essere intesa sia nel senso cattolico che in quello protestante o calvinista. L’Europa è stata fatta dalla cristianità e non ha senso prescindere. Mancare di questo riferimento costitutivo e originario significa perdere, nella carta di identità, uno dei punti di riferimento essenziali; quindi quando vediamo le polemiche sorte a livello europeo sui simboli della cristianità, come quelle sul crocifisso, poi non possiamo lamentarci o stupirci se qualche preside vuole cancellare il presepe o qualche fanatico che viene dal medio oriente vuole sradicare il cristianesimo. Perché se questo è ridotto a marginalità, a fatto privato e intimo della fede di ciascuno, perde la sua dimensione comunitaria e il suo valore di civiltà.
Dopo Dio e le patrie, manca solo la distruzione della famiglia. La guerra in atto oggi non è fatta di bombe e cannoni ma di “omologazione e progresso”. L’individualismo è il solo protagonista. Dominano la scena i bisogni dell’io, gli egoismi dell’uomo adulto e amorale che non deve rispondere a nessuno. Etica come intralcio; tutto è un diritto: mercimonio degli uteri, dei feti, dei semi; comprare bambini o “produrli artificialmente” come oggetti da mettere in vendita. Termini come mamma o papà sono descritti come ridicoli e legati a stupide convenzioni del passato. Lei ha spiegato, citando Platone, che, ubriachi di diritti, non ci accorgiamo della nascita di una tirannia; questa, attraverso la distruzione della famiglia, ci sta portando alla solitudine; condizione da cui non sapremo più difenderci. Da cosa ha origine e come può essere spiegata questa battaglia contro la famiglia?
Innanzi tutto io noto che la mancanza di correlazione di diritti con doveri produce società egoiste e individualiste, senza legami familiari e comunitari. Per questo la solitudine diventa un destino inevitabile. Se aggiungiamo la cultura dell’egoismo e del narcisismo su cui è fondata la contemporaneità ci rendiamo conto come la famiglia sia ormai di troppo. Eppure non abbiamo altro fondamento o radicamento sociale che non sia la famiglia: essa resta il nucleo costitutivo di ogni civiltà. Io non conosco nessuna civiltà, non solo quella cristiana o quella “borghese” come dicono alcuni, che non si sia fondata sul perno indistruttibile, fondamentale e naturale della famiglia. A questo bisogna aggiungere un altro fattore: la pretesa dei diritti è scissa dalle rivendicazioni delle identità. Di conseguenza i diritti non attengono più a una persona con una storia, un’anima e una famiglia; ma ad un individuo mutante, che muta: muta idee, opinioni, alle volte muta sesso, muta geneticamente e culturalmente. Quindi quanto più sono forti i diritti nella loro pretesa, tanto più debole è il soggetto che dovrebbe fruirne e cioè l’identità personale. E questo credo sia alle radici del male e del rifiuto della famiglia.
Termina la tua “Lettera agli italiani” parlando di tutela e rilancio della bellezza, di primato della politica e di sovranità. Ad avere “nostalgia dell’avvenire” siamo in tanti e molti addetti ai lavori, anche personalità con cui lei ha collaborato, hanno espresso opinioni in merito. Ad esempio, proprio da qui, dalla Sicilia, il professore Tommaso Romano ha parlato recentemente di necessità di rilanciare un progetto politico “con supplemento d’anima”. Sono idee che possono trovar spazio ancor oggi? E su cosa si fonda la proposta politica di Marcello Veneziani propedeutica alla salvezza dell’Italia?
Si fonda innanzi tutto sul fatto che la politica non si possa esaurire nella faccia di un leader. Oggi non siamo più neanche nella logica del partito personale di venti anni fa e viviamo una politica proprio ad altezza personale! Siamo nel “partito selfie”, in cui la faccia del leader è tutto. Bisogna recuperare la dimensione polifonica e sinfonica della politica; il fatto che sia una realtà comunitaria e che non la si fa desertificando tutto ma attraverso un gruppo, una appartenenza politica e una storia alle spalle. In secondo luogo inserire categorie come quelle che cita Tommaso Romano, l’anima – io lo chiamo spiritualismo politico – da un lato significa scandalizzare per l’antichità della proposta di un’epoca che non c’è più; ma dall’altro ti accorgi che se non ha quei moventi la politica scompare, si esaurisce nella amministrazione e finisce nelle mani dei tecnici perdendo, quindi, la sua ragion d’essere. La politica ha due compiti: uno è quello pratico, di guidare i processi della società; l’altro è quello di fare comunità, mettere insieme delle persone e farle sentire appartenenti a un comune destino. Quando vengono a mancare queste due cose, a partire dalla seconda, tutto rimane alle gestione emotiva dovuta ai leader animatori televisivi, mentre la gestione reale rimane a tecnici, gruppi finanziari, agenzie di rating e grandi centrali internazionali.
Nel suo testo si contrastano verità disarmanti e speranze di cambiamento. In un passo si legge: “dell’Impero romano abbiamo ereditato solo il senso interminabile della decadenza, sicché non siamo animati come popolo dalla volontà di affermarci ma dalla voluttà del declino”; ma, poco dopo, cita Ezra Poud e il suo credere nell’assurdo, nella resurrezione dell’Italia: “I belive in the resurrection of Italy quia impossible est”. Ancora, alla richiesta di previsioni oggettive e razionali ammette di vedere nero; ma cita Hölderlin e la sua teoria per la quale quando cresce il pericolo si attivano anticorpi e scosse di adrenalina inaspettati. Con sincerità, quale Veneziani prevale in cuor suo? Quello ottimista o quello pessimista? Ce la faremo? Compariranno forze nuove, inaspettate e salvifiche?
Parto da una posizione volutamente pessimista. Se dovessi giudicare sulla base di previsioni statistiche non c’è trippa, non c’è futuro e prospettiva. Ma, assodato che quella è la previsione più probabile, ci sono delle considerazioni da fare. La prima è che la storia ci offre esempi di sorprese e imprevisti; storie che appaiono finite ma che non lo sono e devono ancora nascere. In secondo luogo l’attitudine di chi vive un’epoca non è quello di aspettarsi che finisca ma di cercare di innescare processi diversi. Io dico: proviamoci! Con l’ottimismo della disperazione: proviamoci! Nella peggiore delle ipotesi avremo dato un senso alla nostra vita e, nella migliore, avremo contribuito a modificare il corso degli eventi. Non faccio una previsione perché mi rendo conto che la più realistica è negativa. Ma perché dobbiamo essere da questa parte e non opporci? Abbiamo passato una vita in un quadro di opposizione; perché non opporci a questo evento? È come non volersi opporre al fatto che dobbiamo morire. Certo, abbiamo questa certezza; ma viviamo resistendo alla necessità fatale che è sopra di noi.
Lamentando l’assenza di cultura in politica lei scrive, tra il serio e il faceto, che Salvini non ha dietro neanche “mezzo Miglio”, riferendosi alla Lega di Bossi che parlava la lingua di Gianfranco Miglio, certamente un intellettuale di notevole spessore. Possiamo, però, sperare che Salvini rappresenti un Caronte verso una destra che verrà? C’è un processo politico positivo in corso da cui trarremo frutti in un futuro più o meno lontano?
Io traggo due elementi positivi dalla presenza di Salvini. Uno è quello della chiusura del capitolo della leadership di Berlusconi: finisce un’epoca. L’altro è che egli ha imitato un gergo dell’identità che ci è molto familiare perché c’è ancora uno spazio, una opinione pubblica, che vuole sentire quei temi. Questi sono i motivi significativi della sua ascesa. Io considero Salvini e la Lega come possibili, se non necessari, interlocutori del centrodestra in italia, ma non certo come la sintesi della destra italiana. Se la sintesi della destra in Italia è Salvini io sono pronto ad emigrare dalla destra o dall’Italia.
La gente comune aspetta sempre che siano i politici e i grandi pensatori come lei a muoversi e, se le cose vanno male, scaricare su di essi la colpa di tutto. Come possiamo contribuire e cosa possiamo fare noi cittadini, tutti, in concreto e nel nostro piccolo agire quotidiano, per prenderci cura del nostro Paese, dargli amore, perché l’assurdo diventi realtà e l’Italia si salvi?
Cominciare ad agire nella dimensione locale, della prossimità. Laddove possiamo incidere farlo nella direzione che riteniamo giusta. Facciamolo con azioni e opere ma anche attraverso le testimonianze al livello di opinioni, di rete, sui network, cercando compagni di strada. Se dovessi citare una cosa confortante avvenuta nel 2015 penserei alla manifestazione del 20 giugno in difesa della famiglia; che non è nata da nessun soggetto politico e ha mobilitato milioni di persone. Questa manifestazione non ha avuto tratti di nessun fanatismo fondamentalista e nessun ritorno alla arcaica famiglia patriarcale. Era un’Italia reale, di oggi, che poneva il problema della centralità della famiglia. Se iniziative di questo genere venissero proposte anche in altri ambiti, oltre che in quello familiare, potrebbero emergere segnali di ripresa, di risveglio. Questi possono nascere solo attraverso il contagio della prossimità: lo stare vicini.
Tre aggettivi per definire l’Italia?
I primi che mi vengono in mente sono bestemmie e improperi. L’Italia puttana che abbiamo conosciuto nei secoli, nei decenni, è la prima cosa che viene in mente. Ma l’italia è uno straordinario Paese: il più bello dei paesi al mondo, il più ricco di variazioni e imprevisti e al tempo stesso il più simile, nella sua fattezza geografica, a una persona.