Qualche settimana fa, lo ricorderete, ho raccontato attraverso il mio articolo “Manganelli e selfie: storia di una deriva e di un referendum”, tutte le contraddizioni e la tragicomica realtà di un Paese in cui, quando i manganelli in piazza le suonavano ai ragazzi che protestavano contro Berlusconi, era tutto un coro di indignazione contro la dittatura. Sottolineavo, nell’articolo che parlava degli scontri in Piazza a Palermo in occasione della visita di Renzi, che oggi invece non è così! Perché mai questo indignarsi a corrente alternata? Perché urlare al regime per anni e minimizzare tutto, invece, adesso? Ci ho ripensato non poco ieri, leggendo su un quotidiano che un professore dell’Università di Palermo, avrebbe “costretto” (il virgolettato serviva a dire ma non dire; come il non riportare nome e cognome per evitare querela. Giornalismo impavido) i ragazzi in piazza a prendere manganellate; o meglio avrebbe condotto i ragazzi, attraverso i suoi insegnamenti, a quella inevitabile fine. Esiste un certo tipo di giornalismo – sempre lo stesso – che non si è mai risparmiato, come in apertura racconto, di denunciare il regime spalleggiando professori o sindacalisti in piazza coi ragazzi. Questo però solo quando al governo c’era il Cavaliere. Oggi scopriamo che il tutto può essere raccontato in modo diverso. E cioè che un cordone di polizia non va avvicinato perché le regole si rispettano. Non è un attacco personale, questo, non conoscendo le opinioni dell’autore del pezzo ai tempi delle manifestazioni di piazza quando al governo c’erano altri. E’ però importante sottolineare che forse un certo tipo di giornalismo – sempre lo stesso – lancia accuse non poco gravi, certamente sul piano morale, verso chi non si allinea; verso chi dissente. “Linciaggio mediatico, questa è la sorte dei dissenzienti”: così si legge in un commento su Facebook del professore in questione. Sarà così o è una esagerazione? Non posso saperlo o lanciare accuse e anzi non me ne frega niente. Certo, però, mettendosi nei suoi panni si può capire il dispiacere di chi, nonostante dissenta, era proprio in piazza con intenzioni opposte: quelle di evitare che i ragazzi avvicinassero la polizia; mettendosi in mezzo per dividere e non, invece, come è stato narrato, suonando la carica per mandare i suoi soldati all’attacco. Così mi ha raccontato lui, a me che l’ho contattato per avere una opinione. Cosa che si evince, tra l’altro, anche dalla fotografia che ho pubblicato dove egli le prende di santa ragione facendo scudo. Poi, per mia visione, vedere un professore non diventato un dinosauro che è in piazza coi ragazzi invece di asservirsi alla convenienza politica del momento, ha solo qualcosa di romantico e genuino. Ce ne fossero di più l’Italia sarebbe un posto migliore. E rimane una tristezza di fondo, da un punto di vista intellettuale, ed è quella di leggere tra le righe, nel pezzo incriminato, che le regole sono regole e quindi si rispettano e basta. E se le regole fossero scritte male? E se quei ragazzi, in piazza, volevano dissentire? Che facciamo: gli si risponde che le regole sono regole e devono stare a casa o non devono permettersi di avvicinarsi al Presidente del Consiglio con uno striscione? Già, le regole: arduo vivere senza, difficile obbedire quando le si ritiene ingiuste e figlie di un sistema corrotto da cui i ragazzi, infondo, vorrebbero solo salvarsi. Torna alla mente come immenso monito, quella frase pronunciata da Aleksandr Solzhenitsyn ad Harvard; e ad ascoltare era il mondo intero: “una società senza oggettivo riferimento legale e terribile. Ma una società senza alcun altro riferimento che quello legale non è all’altezza dell’essere umano”. Era l’8 giugno del 1978. Dio solo sa quanto patrimonio intellettuale è dentro di noi grazie alle parole di un uomo che ci ha insegnato che le regole, se sbagliate, si contestano in nome di una cosa che quei ragazzi, a differenza di molti giornalisti, sognano ancora: la libertà!
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