di Maurizio Miceli.
Condannato prima dalla stampa e dall’opinione pubblica, italiana e internazionale, in seguito dal Tribunale Penale di Milano quel fatidico 24 giugno 2013, Berlusconi é stato assolto perché il fatto non sussiste.
Il pretesto di questo accadimento, per certi versi storico, suggerisce e quasi impone un’analisi sociologica sulla percezione della giustizia da parte degli italiani che, nel loro creativo immaginario collettivo, probabilmente erano convinti che l’ex premier fosse stato condannato perché “andava a letto con Ruby” e che l’intervento della Corte di appello di Milano lo abbia scagionato da questa imputazione morale non già per concussione, vero tema del processo.
Quando si parla di giustizia gli italiani si affratellano e distinguono tra i più rigidi “giustizialisti” e i più costituzionalmente orientati “garantisti” nulla sapendo delle dinamiche endoprocessuali, dando credito alle più fantasiose e conturbanti teorie come quella del Sig. Travaglio secondo cui la legge Severino del 2012 sia stata l’occasione per salvare Berlusconi, nulla sapendo che proprio il caso del Presidente del Consiglio di allora non ha avuto il benché minimo beneficio da una disposizione che scorporava in due fattispecie la concussione mantenendo sostanzialmente intatto, in termini di condotta, quanto precedentemente previsto.
I media speculano sul pressappochismo italiano e sulla necessità politica degli attori che la celebrano, spesso in modo inqualificabile, di presentarsi più innocenti di altri perché altrimenti si perde consenso. In questa Italia, ed il caso Berlusconi rinnova la doglianza, non si é mai inteso un dibattito serio in materia di giustizia penale anche solo con riferimento all’utilizzo incontenibile di misure cautelari, specialmente la carcerazione preventiva, non s’è mai dato seguito concreto ed adeguato a quel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e davanti ad una assoluzione non si riesce a pensare ad altro se non a complotti, al patto del Nazareno, e si arriva financo a ritenere i giudici giusti quando condannano e ingiusti quando assolvono.
Autorevoli protagonisti dell’epoca raccontano del perché non ebbe successo il celebre “patto della crostata” dove si raggiunse intesa su separazione carriere e responsabilità civile dei magistrati non attribuendo le responsabilità ad un ripensamento di Forza Italia – come pure qualcuno ha scritto – ma perché D’Alema non riuscì a sostenere quell’accordo in ragione della ostinata opposizione della potente lobby di magistrati all’epoca osannato dopo una Tangentopoli irruenta ma tendenziosa.
E allora si iniziasse a distinguere i due piani, si iniziassero a raccontare le storie di quelle che sono le autentiche vittime della giustizia, ossia gli innocenti che dall’oggi al domani si ritrovano tra le sbarre grazie alla “pena anticipata” e sui giornali grazie alla cinica necessità di dare la notizia, in modo sensazionalistico altrimenti non si vendono copie, per poi rettificare il tutto in un articolo impercettibile.
Italia vittima dei tanti “principi delle indagini preliminari” e non delle verità, che va ribadito, sono meramente “processuali” perché il processo é ricostruzione di un fatto storico, ricostruzione ontologicamente impossibile che deve assurgere alla certezza processuale della responsabilità penale dell’individuo imputato.
S’iniziasse a distinguere tra etica e giustizia, si iniziasse a rinunciare all’osmosi tra autore e reato, si iniziasse a comprendere come la verità sia un’altra cosa e si comprendesse come la giustizia non sia di questo mondo!
Se l’opinione pubblica italiana è predisposta ad offrire le monetine del Rafael a chiunque, basta solo volerlo, basta solo volerlo credere, questa é una responsabilità del ministero dell’istruzione e dei vari “opinion leader” potenti più che mai, perfino oltre la politica che a seconda dei rapporti di forza é vittima, é etero diretta in una democrazia che, ridotta così, pare si – come diceva Chirchill – l’unico sistema possibile ma per esautorare il suo sovrano, il popolo!