Ho conosciuto Totò Cuffaro ben prima di incontrarlo fisicamente; sapevo sarebbe stato così, come mi ha accolto: buono, umile e dolce. Ne ero certo perché lo avevo conosciuto a fondo leggendo i suoi libri. Avevo conosciuto lui ma anche i suoi figli, sua moglie e i tanti compagni di viaggio di Rebibbia. Mi apre la porta a piedi nudi; è appena tornato dalla corsa mattutina. Mi bacia e, dopo i miei saluti, mi chiede di dargli del tu: “per piacere non darmi del lei, chiamami Totò”.
Devo sinceramente ammettere a me stesso, ancora incredulo, e a chi leggerà queste mie parole, che un tale percorso d’anima, un tale processo interiore, scaturito dall’affrontare il durissimo e bellissimo compito di leggere le centinaia di pagine che egli ha prodotto, è stato davvero sorprendente. Si piange, tanto; o almeno io ho pianto. Non avrei mai pensato che, un giorno, Salvatore Cuffaro avrebbe potuto farmi piangere e riflettere su me stesso, sulla mia famiglia, sulla vita. Nei libri che ha scritto lui racconta del carcere, racconta la sua storia; ma, allo stesso tempo, parla di te. In ogni suo racconto c’è un pezzo della vita di tutti noi. In ogni sua emozione, in ogni dettaglio, c’è il dolore e la gioia di ogni uomo: prigioniero del carcere o, in libertà, delle proprie paure e sofferenze. Sono stato capace, grazie a lui, di far maturare nuovi pensieri che mai avevano regnato dentro di me; ad esempio verso gli uomini che sbagliano, anche gravemente. Questo è un cambiamento importante ed è un regalo di cui gli sono grato: sono parole private che io gli dedico in pubblico.
Lunghe e appassionanti, ma tante e forse troppe, le domande che avevo preparato. Altrettante quelle che sono nate durante la mattinata passata insieme. Ho preso, per questo, la decisione di non scrivere adesso le tante cose che mi ha raccontato circa la politica, il processo e le vicende precedenti la sua condanna; ci rivedremo per una seconda intervista. Quella che segue, quindi, è solo la prima parte del lungo viaggio che ho avuto il piacere di fare. Le storie del carcere, le emozioni, le riflessioni sulla società, sulla fede, sull’amore. Chiedo perdono al lettore ma non ho voluto e potuto scrivere meno. E, nonostante le tante parole che leggerete se avrete voglia di arrivare fino in fondo, confesso che avrei voluto scrivere ancora, senza mai una fine, i mille pensieri che lui mi ha affidato e non troverete in questa intervista; spero riusciate a scorgerli, tra le righe, e farli vostri comunque.
Al termine di questo lungo e doloroso viaggio, la tua stella cometa, la Sicilia, ti ha accolto con un calore straordinario. Qui, che tu abbia favorito la mafia, sembra non lo credano in molti. Che sensazioni provi? Nei tuoi libri esterni le angosce circa il dover convivere con questo fardello. Oggi sei più sereno?
Confesso che l’affetto della gente è stato straordinariamente importante. Già durante il carcere ricevere 15.000 lettere, più quelle che non mi sono state recapitate, mi aveva dato la sensazione che quella sentenza, in qualche modo, lasciava tanti dubbi nel cuore delle persone. Uscendo ho avuto la conferma; ed è bello! Che ci fosse tanta gente ad i miei incontri quando ero presidente della regione era scontato; ricoprendo un incarico potevo rispondere ai loro bisogni. Ma, adesso, ho capito di essere circondato da affetto genuino e sincero perché io non sono più in condizione di dare niente. Anche chi ha sempre pensato che le persone mi stessero accanto solo per interesse deve ammettere che non è così. Mi conforta ma non alleggerisce il fardello drammatico. Un macigno, dentro il cervello, che non si muove.
I dubbi della gente: una verità diversa dalla verità giudiziaria?
Io ho vissuto questi anni di carcere con l’idea, la speranza, che il verso della mia storia non potesse essere quello che avevano scritto le sentenze. Che non poteva rimanere solo fango della mia storia umana e politica. Uscito e travolto dall’affetto della gente ho capito che il verso della mia storia, per le persone, non è quello scritto nelle sentenze ma è quello che io leggo nei loro occhi e mi regalano coi loro sorrisi e le loro carezze. In carcere mi sono laureato in giurisprudenza e ho pensato alla possibilità di una revisione del processo. Ho fatto tanti errori ma, nella mia coscienza, so di non aver mai voluto favorire la mafia. C’è una sentenza e le sentenze si rispettano. Rispettarle non è solo un dovere ma anche un diritto. Non è mia l’idea ma di Socrate. Socrate rinunciò a vivere pur di avere il diritto di rispettare la giustizia. Nel mio caso non vi è stata pena di morte materiale bensì civile; però questo diritto di rispettare la giustizia per me è importante; perché i diritti si vogliono ma i doveri si assolvono.
Leggendo i tuoi libri si ha modo di conoscerti, parlarti, addentrarsi nel tuo animo e cogliere sfumature che solo la lettura delle tue emozioni può dare. Arrivano nitidi odori e rumori, sorrisi e lacrime. La scrittura o la lettura, come la musica, sono gli strumenti più straordinari che l’uomo possieda. Tu dici che scrivere ti ha fatto vivere! Puoi raccontarmi queste emozioni?
Ti ringrazio perché mi hai detto una cosa bellissima! Ti confesso che scrivere mi ha aiutato a vivere perché pensavo che, nonostante fossi chiuso in una cella, le cose che scrivevo di giorno e di notte, sul letto, sarebbero arrivate al cuore di qualcuno. La sensazione che quei pensieri, messi su carta, non rimanessero con me ma potessero raggiungere i sentimenti delle persone mi ha aiutato a vivere. Pur essendo in carcere ho liberato i miei pensieri raggiungendo le persone che si volevano far raggiungere. I libri hanno dentro i sentimenti di chi li scrive e hanno la missione di consegnarli a qualcuno. È compito di chi li legge saper interpretare e vivere le emozioni di quei sentimenti. I sentimenti che io ho affidato ai miei libri, che hanno suscitato emozioni, hanno fatto vivere i libri e hanno fatto vivere me. Ma, tutto, dipende dalla sensibilità di chi legge; da chi ha il cuore, la testa, la possibilità di cogliere e far vivere i sentimenti custoditi nel libro. Ed io sono contento perché dalla domanda che mi hai fatto vuol dire che tu hai fatto vivere i miei sentimenti.
Tra le tante emozioni stupende che ho letto certamente vi sono quelle legate all’amore della tua famiglia. “Il bisogno di amore in carcere è urgenza assoluta, è necessità, è conferma unica della speranza, è il luogo del sogno e del desiderio del ritorno alla vita del mondo”. E, ancora: “L’amore è un sentimento e senza sentimenti, in carcere, non mancano ragioni per disperarsi e forse uccidersi”. Puoi raccontarmi come vivevano la detenzione i tuoi compagni di viaggio privi dell’amore di una famiglia? Quanto può cambiare la storia di una detenzione e il destino uomo senza questo scoglio?
Ho raccontato quanto sia stata importante la mia famiglia proprio per far capire quanto questo valore sia fondamentale circa la speranza e la fiducia nella vita. Talmente importante che, senza, è difficile superare il carcere. Questo si supera se hai la forza fisica e se hai motivi per superarlo: la famiglia è un motivo fondamentale! Ho conosciuto persone che non avevano queste motivazioni e hanno vissuto il carcere con grande disperazione; alcuni non sono riusciti a superarlo. Se non hai un appiglio e una speranza è difficile superare il carcere. Nel mio braccio ho assistito a sei suicidi in cinque anni. I nostri compagni senza una famiglia ci vedevano attraversare il corridoio per andare al colloquio con i nostri parenti e, dalle finestrelle, come si fa in carcere, ci auguravano “buon colloquio”. E sapevano che nessuno, mai, sarebbe andato a trovare loro. È una cosa drammatica e il mio pensiero è a loro. Ai detenuti che non hanno nessuno o, peggio, quelli che hanno una famiglia ma vengono rifiutati e dimenticati. Il carcere così diventa disperazione e superarlo è un miracolo.
Sembra incredibile ma il carcere, per alcuni, può diventare una rassicurante casa rispetto a un mondo reale che non si conosce o è troppo lontano nei ricordi. E’ la storia delle lunghe detenzioni dove quelle sbarre diventano condizione esistenziale e non momentanea. Si può avere paura della libertà?
Ti racconto la storia di Luciano. Ero al secondo anno di carcere e questo detenuto aveva scontato tutta la sua detenzione. Aveva fatto quasi 27 anni ma ha avuto il terrore di tornare in libertà. Il carcere era diventato la sua vita e l’idea che dovesse tornare fuori, senza famiglia, senza amici e affetti, solo, gli ha ottenebrato la mente. Luciano ci diceva: “Adesso che ho la libertà cosa ne debbo fare”? Non ha resistito a quelle paure e si è suicidato quattro mesi prima della fine della pena! Lui aveva costruito la sua idea di libertà dentro al carcere. I piccoli gesti quotidiani che ci fanno vivere lui li legava al carcere; aveva paura di perdere quello che aveva. Parlava con tutti, ci dava i libri perché lui aveva il compito di recuperarli dalla biblioteca centrale. La sua famiglia eravamo noi e quelle piccole cose che condivano le sue giornate gli hanno fatto credere che uscendo non avrebbe riacquistato la libertà ma, al contrario, la avrebbe perduta.
Sembra la storia del vecchio Brooks del film “Le ali della libertà”. Il vecchio che gestiva la biblioteca e portava i libri, con il carretto, verso le celle. Si suicidò una volta fuori.
Ricordo quel bellissimo film. Ma in quel caso la forza di uscire e tentare di andare incontro alla libertà lui la aveva avuta; il mio amico Luciano è rimasto terrorizzato solo all’idea di uscire e di perdere la sua libertà. Non ce l’ha fatta! Nel film Brooks aveva paura ma andò incontro alla libertà anche se, una volta fuori, ne trovò una che non gli apparteneva. Luciano ha avuto il terrore di perdere il carcere, che era la sua libertà, la sua famiglia, tutto quello che aveva. E non ha avuto la forza.
Può un uomo vivere davvero senza sapere cosa sia la libertà? Che cosa è, oggi, per Salvatore Cuffaro, la libertà?
Oggi per me ha un significato profondissimo. Non è soltanto respirare in senso materiale ma cogliere il respiro lungo della vita, in senso spirituale. Questo lo cogli la mattina svegliandoti e baciando tua figlia che sta ancora dormendo; lo cogli dormendo nello stesso letto con tua moglie e preparando il caffè. Queste cose semplici sono l’essenza della vita, la libertà più piena. La libertà è poter avere un libro quando lo desideri senza dover aspettare sei mesi dopo averlo richiesto. La libertà è poter baciare una persona senza doverlo fare attraverso le sbarre, come feci con Pannella quando venne a trovarmi. La libertà è il mosaico di tutte queste cose piccole e straordinarie che hanno un significato semplice e profondo.
“In qualunque genere di vita non si vive senza queste tre propensioni: credere, sperare e amare”. Sono parole di Monsignor Fisichella che tu riporti a cornice di una lunga e importante argomentazione circa la fede; unico scoglio per non affogare se la solitudine è nostra compagna. Quale viaggio spirituale ha compiuto il detenuto Salvatore Cuffaro? Quali scoperte, circa Dio e la sua importanza, ha potuto vivere in conseguenza alla suo condizione?
Il carcere non è stata una esperienza negativa; è stata una esperienza brutta che, però, mi ha lasciato delle positività. Una di queste riguarda certamente la fede. Ero già molto credente: vengo da una famiglia cattolica e ho frequentato i salesiani. Ho fatto pellegrinaggi in tutti i luoghi di culto ed anche volontariato con Madre Teresa. Da presidente mi attirai le antipatie dei salotti quando affidai la Sicilia alla Madonna e, te lo dico in anteprima, tra poco verrà inaugurato un cammino che ho ideato. Va da Santo Stefano a Palermo: il cammino di Santa Rosalia. La fede, quindi, è sempre stata presente nella mia vita ma in carcere ho incontrato il suo volto umano oltre che divino. Il carcere mi ha insegnato a ritrovare la mia anima e parlare con me stesso ma, soprattutto, mi ha fatto conoscere il Cristo uomo. Io ho avuto la sensazione, ogni giorno di più, che il Cristo crocifisso scendeva dalla croce per aiutarmi a portare la mia. Lui diventava cireneo e ho incontrato l’aspetto umano della fede. Il Cristo umano che, anche se soffre e sanguina, ti prende per mano, dorme con te, passeggia con te, gioisce con te, vive con te. L’aver scoperto questa umanità del Cristo, diversamente da quella idea solo divina che avevo sempre avuto, è stata una scoperta straordinaria. E non avrei mai potuto farla senza l’esperienza e il dolore del carcere. Un amico detenuto, credente a modo suo, mi disse una cosa che mi impressionò: “troverai davvero la tua fede quando sentirai il bisogno di ringraziare il tuo Dio anche per questi cinque anni di vita privata della libertà”.
Come scrisse Gibran: “quanto più a fondo ci scava il dolore, tanta più gioia possiamo contenere”.
Adoro Gibran ma non conoscevo questa frase: sono pronto a testimoniarlo!
Abbiamo parlato di fede e famiglia. Eppure, per questi fari dell’uomo, quello che viviamo è un tempo apocalittico. Quali sono le riflessioni del politico Salvatore Cuffaro circa tutto questo?
Mi voglio concentrare sulla famiglia perché credo che questa sia il soggetto politico in assoluto più a rischio. Parlo come concetto laico e religioso insieme. È la cellula primaria della società e se la famiglia non funziona non funziona anche la società. Oggi la famiglia è aggredita nei suoi valori più importanti, a cominciare dalle origini, dalla sua costituzione. Pensare che ci possa essere una famiglia che si costituisca diversamente da quello che è l’ordine naturale oggi è descritto come un garantire dei diritti piuttosto che stravolgerli. Quello che non riesco a capire è che, ad esempio, le persone che dicono sia giusto costruire figli in provetta sono le stesse che si scandalizzano, poi, quando si fanno manipolazioni in agricoltura. È una cosa allucinante! Queste persone fanno battaglie e condannano la manipolazione genetica sul mais, ma se si tratta di bambini diventa un diritto. È assurdo considerare un diritto il fatto che si possa fare un bambino affittando un utero e non si tenga conto del diritto naturale del bambino di avere due genitori. È egoismo ma viene camuffato da salvaguardia di diritti. Purtroppo, circa questo, abbiamo poche difese. Se guardiamo quello che sta succedendo nel mondo sono obbiettivamente angosciato. Quando si inizierà a stravolgere l’ordine naturale non ci saranno, sempre più, limiti; e non sapremo dove arriveremo.
Massimo fini, in un suo articolo, l’ha chiamata deriva illuministica. Tutto, oggi, è un diritto; anche calpestare i diritti degli altri.
Bellissima definizione. Appunto gli illuministi avevano un punto di riferimento che era la ragione. E su questa costruivano il loro pensiero circa l’uomo e i diritti. Qui non c’è più la ragione. È una deriva che sta facendo emergere gli istinti innaturali! Nel mio prossimo libro, “La figlia delle monache”, racconterò una storia un po’ vera e un po’ fantasiosa; e affronterò questo tema.
Questa società priva di riferimenti spirituali e morali, in cui conta solo il denaro, porta l’uomo a reagire; spesso sbagliando. Tu scrivi: “chi delinque è schiavo della passione, dei costumi di una società che quanto più si realizza in senso economico, tanto più esclude … oggi si uccide perché, paradossalmente, con tale atto si afferma la propria esistenza”. Sono parole forti ma che portano a riflessioni profonde circa la misericordia verso chi commette errori.
Tu hai ricordato una mia frase molto importante e cioè che si uccide per affermare la propria esistenza. Come fa la mafia per affermare il suo potere, la sua esistenza. Ma questo estremo può appartenere anche a noi. Il vicino di casa che lo fa con un suo dirimpettaio o, nella vita di ogni giorno, il professionista più bravo che vuole schiacciare quello meno bravo per affermare la sua superiorità. E nei massimi sistemi, ad esempio, se una economia forte ne uccide una debole! Questa è la realtà di una società che esclude e gli esclusi reagiscono per disperazione.
Viviamo immersi in un sistema culturale che vede la prigione come vendetta. Forse, però, la vendetta non è giustizia. Ho letto della tua convinzione che il carcere a vita vada abolito e anche l’augurio che, un giorno, la nostra civiltà riesca ad abolire il carcere. Come si può coniugare tutto questo con i sentimenti di chi ha subito un crimine, magari il peggiore?
Un conto sono i sentimenti delle persone che hanno subito un crimine e un conto è lo Stato. Le famiglie delle vittime hanno il giusto desiderio che il reo paghi e possiamo certo giustificare e capire un sentimento di vendetta; ma lo Stato è un’altra cosa! Lo stato è il padre di tutti; della vittima ma anche del reo. E il padre ha il dovere, soprattutto nei confronti dei figli che hanno sbagliato, di non essere vendicativo: facile ricordare la parabola del figliol prodigo. Quel padre poneva le sue attenzioni sul figlio che aveva sbagliato perché aveva più bisogno e lo Stato dovrebbe fare lo stesso. In gran parte dei casi, invece, quello vendicativo è proprio lo Stato perché impone, con le sue norme assurde, pene non rieducative ma punitive e vendicative.
Leggendo i tuoi libri ho fatto un viaggio tetro e illuminante dentro le carceri. Ho imparato che, a causa delle condizioni di detenzione, le persone, prima del ritorno in società, possono cambiare in peggio o ancora diventare delle bestie.
È lo Stato che, con cattiveria, impedisce a un padre che ha sbagliato ed è in carcere di parlare al telefono con i suoi figli. Perché concedere a un padre solo due telefonate al mese? È lo Stato che ti fa vedere i tuoi figli attraverso una lastra di vetro blindato senza poterli toccare o accarezzare. Perché? Questo non è uno Stato che sta rieducando quel detenuto ma lo sta facendo diventare una bestia. Egli, quando uscirà, sarà incattivito. Nella cella accanto la mia c’era un ragazzino di 19 anni che, come primo reato della sua vita, era stato condannato a cinque anni per rapina a mano armata. L’arma era uno spray al peperoncino! Cinque anni è una follia! Questo ragazzo, quando uscirà dal carcere, la rapina la farà con la pistola. Uno Stato giusto rieduca un ragazzo di 19 anni che ha fatto un reato lieve facendogli scontare la pena lavorando. Questo è solo un esempio; ma io immagino che il carcere vada abolito per molti reati. Può, certo, rimanere per quelli più gravi ma ci sono tanti detenuti che potrebbero scontare la pena in modo costruttivo. Utopicamente spero che un giorno il carcere non esista più. L’utopia è una cosa che non si può raggiungere ma serve. Perché ti fa camminare verso una direzione.
Queste indegne condizioni di vita nelle carceri, però, hanno la conseguenza positiva di sviluppare un legame tra i detenuti ancor più forte; aumentano la solidarietà e, da questo, nascono piccole grandi gioie. Quanto è stato importante renderti utile per i tuoi compagni di viaggio e come loro hanno aiutato te?
In carcere ci si mette a disposizione e ognuno offre quello che ha. Io ero medico e ho studiato giurisprudenza. Ho scritto richieste di permessi per altri detenuti o anche le loro lettere d’amore. Ho aiutato alcuni a fare i compiti perché stavano facendo le scuole durante la detenzione; ho fatto quello che potevo. Io ho ricevuto delle lezioni da persone umilissime. Amici che hanno diviso con me una foglia di basilico. Ci sono state persone che nei momenti più drammatici della mia vicenda, come quando mi è stato impedito di vedere mio padre prima della sua morte, mi hanno rincuorato con sorrisi e amore. Piccole cose, che sembrano non importanti. Ad esempio, dopo i primi sei mesi di carcere non mi venivano più i pantaloni che cadevano. Un detenuto mi regalò la sua cintura elastica, l’unico tipo che si può avere in carcere perché non ci si può impiccare. La porto ancora addosso! Lui non aveva neanche un euro per comprare il latte ma mi regalò la cintura. Poi scoprii che lui strinse i suoi pantaloni con un laccio di fortuna. Oppure c’era un ergastolano che mi preparava un ciambellone ogni volta che venivano a trovarmi i miei figli. È quella umanità che non chiede e pretende ma dà. Sono cose che mi porterò dentro per tutta la vita.
“La Madre e la nenia sono sempre con me, mi precedono nel difficile cammino, mi accompagnano nel giorno, parlano al mio cuore. Nessuno, in carcere, resta mai quello che è stato, e dopo è quello che il carcere lo ha fatto diventare, e lo resta per sempre”. Chi è, oggi, Salvatore Cuffaro?
Il carcere è un posto che ti toglie tutto. Che vorrebbe toglierti tutto. Ti spezza il fiato e ti toglie il respiro lungo della vita. Ma non riesce a toglierti l’amore delle persone che ti vogliono bene e non riesce ad impedirti, soprattutto, di volere bene e di amare. In questo senso il carcere ti cambia, perché la tua capacità di voler bene, in carcere, si implementa e diventa più forte. Ogni piccola cosa diventa una grande cosa, in carcere. Questo mi ha insegnato a dare il giusto valore alle cose e ha riordinato la gerarchia dei valori della mia vita. Che la famiglia fosse importante l’ho sempre saputo ma, nel passato, ho spesso pensato che una inaugurazione fosse più importante di arrivare in orario alla cresima di un figlio; che fosse essenziale partecipare a una cena coi sindaci invece che andare a cena con mia moglie e i miei figli il giorno del loro compleanno; che non fosse importante vedere mio padre, per settimane, perché ero impegnato in estenuati riunioni. Ecco, il carcere ha riordinato la gerarchia dei miei valori e questa cosa è stata un cambiamento profondissimo. Ho pagato talmente tanto per i miei errori che non rinuncerò più a certe cose importanti.
Cosa vorresti dire a chi leggerà questa intervista?
Dico ai lettori che a me, questa cosa, questo cambiamento, è successa perché la vita mi ha presentato il conto e sono stato obbligato a farlo dagli eventi. Io vorrei mandare, a chi leggerà la tua intervista, il messaggio che non si deve aspettare che sia la vita a obbligarci a riordinare le nostre priorità ma che bisogna farlo subito. E questo permette di non pagare, un giorno, un conto salatissimo fatto di rimpianti.