Il 12 settembre del 2006, a Ratisbona, Papa Benedetto XVI pronunciò il famoso discorso “Fede, ragione e università – Ricordi e riflessioni”, lectio magistralis presso l’Università della cittadina della Baviera. La morte del Papa, di questo Papa, non può non suscitare primariamente il ricordo di ciò che generò, di fatto, le sue dimissioni. “Il Papa è l’unico ad aver capito che il nulla ci sta avvolgendo; il nichilismo si sforza di rendere il male non visibile né dicibile né pensabile. Contro una simile devastazione mentale e mondiale, la lezione di Ratisbona richiama la fede biblica e gli interrogativi della filosofia greca a rinnovare senza concessioni una alleanza che mi auguro sia definitiva e vittoriosa”: così si esprimeva, il giorno dopo il discorso di Ratisbona, il filosofo francese André Glucksmann.
Immenso teologo, baluardo a difese della nostra civiltà, Papa Benedetto XVI ha operato a difesa dei valori non negoziabili, contro il relativismo in cui tutto si perde. Un nemico invisibile, subdolo, che si è insinuato nella nostra società con false sirene di libertà ed apertura al nuovo, al diverso; con scopi ed effetti opposti: la perdita di ogni riferimento, guida dell’essere umano all’interno del contesto in cui si muove. Una costante e totalizzante destabilizzazione, dove tutti si perdono, specie i più giovani, senza che sia più la ragione a governarli. Tutto è relativo; quindi anche le nostre azioni; il bene e il male.
Il relativismo contro cui si è battuto il Papa è stato produttore di quella che possiamo definire “dittatura laicista”, un fondamentalismo che è ostile a ogni ruolo sociale e culturale della religione. Apparendo come faro di libertà conquistate, il laicismo è, spesso ed invece, attraverso i suoi cantori, irrispettoso del diritto alla libertà religiosa, diritto fondamentale e universale della persona umana.
Si è molto osservato, nei decenni che ci precedono, un progressivo mutare del laicismo di Stato come fenomeno culturale. Da garanzia di ogni individuo e delle rispettive libertà, esso si è tradotto in una spietata apostasia del Cristianesimo, un costante e martellante lavoro di perdita di riferimenti sociali e di comunità che possono rifarsi ad ogni uomo, credente o meno, all’interno del contesto in cui esso vive e secondo i punti fermi che, ad esempio, ritroviamo del testo di Marcello Pera “Perché dobbiamo dirci cristiani”, che rilegge e rafforza il precedente pensiero di Benedetto Croce: “Perché dovremmo dirci cristiani? Oggi siamo liberali, e perciò non c’è bisogno di rivolgersi al cristianesimo per giustificare i nostri diritti e libertà fondamentali. Siamo laici, e perciò possiamo considerare le fedi religiose come credenze private. Siamo moderni, e perciò crediamo che l’uomo debba farsi da sé, senza bisogno di guide che non derivino dalla sua propria ragione. Siamo figli della scienza, e perciò ci basta il sapere positivo, provato e dimostrato. In Europa stiamo per unificarci, e dunque dobbiamo evitare di dividerci menzionando il cristianesimo fra le radici dell’identità europea. In casa nostra stiamo integrando milioni di islamici, e dunque non possiamo chiedere conversioni di massa al cristianesimo. Dentro le nostre società occidentali stiamo attraversando la fase della massima espansione dei diritti, e dunque non possiamo consentire che la Chiesa interferisca e ne ostacoli il godimento. E così via. Questo libro intende rifiutare tutti questi perciò e dunque. Non c’è dubbio che siano diffusi: li leggiamo sui libri e sui giornali, li sentiamo alla televisione e nelle aule universitarie, li ascoltiamo dalla voce di tanti intellettuali, li vediamo all’opera nell’azione di tanti politici. Ci bombarda da così tante parti, questa negazione della religione, in particolare questa apostasia del cristianesimo, che c’è solo da meravigliarsi che qualcuno ancora si opponga.”
Si oppose Papa Benedetto, e a Ratisbona i punti fermi delle necessità emergenziali da lui denunciate erano legate alla fede e alla ragione, entrambe in corrispondenza biunivoca, che hanno costituito per secoli le fondamenta del rapporto tra l’uomo e le cose del vivere, come la scienza: chi può negare, ad esempio, che quanto avvenuto in questi due anni di pandemia circa “la scienza” trasformata in dogma senza l’utilizzo della ragione (o meglio col divieto di farne uso), sia il frutto di un percorso di perdita totale di riferimenti illuministici e religiosi? “L’ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano“: è avvenuto tutto il contrario: negazione della ragione e divieto di dire il vero inconfutabile, esso descritto come bugia.
Ma il Papa, costretto poi a pregare in una moschea ad Istambul, lancia il dialogo tra religioni, frainteso o forse compreso, ed appunto per questo perseguitato e costretto a lasciare il timone. Le parole della fine sono quelle di Manuele II Paleologo, imperatore bizantino, che il Papa cita: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue – egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγῳ”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte”.
Accerchiato per aver detto il vero in una epoca dove è vietato dirlo in ogni ambito, a causa delle reazioni del mondo islamico e alle pressioni provenienti da ogni dove, perderà il controllo “politico” della Chiesa come Stato, decidendo di rinunciare all’esercizio, non al titolo: la sede oggi, è vacante. Il Papa non è Francesco.
Restano indimenticati il coraggio, la ragione e la lucidità della necessità di una Lepanto culturale non più rimandabile. Diversamente il buio, la fine di una bimillenaria cristianità sempre più vicina. Auspicata, caldeggiata da quelle forze che vorrebbero rivederci schiavi, consapevoli che la perdita della fede ha costituito per tutti noi la base per la fine della ragione e, quindi, di ogni libertà. Condizione perfettamente descritta da quella “scienza” che oggi possiede l’uomo invece che esserne al servizio, lo usa come un oggetto per fare esperimenti genetici, e mira al transumano grazie alla perdita di quell’etica, argine di ciò che giusto e sbagliato, ciò che si può fare e no. Tutto è concesso se tutto è relativo.
Dovremo affrontare l’ultima battaglia senza la sua guida, con la paura e la speranza che quanto fatto in vita sia stato sufficiente ad indicare la strada per la salvezza dell’uomo.