Trieste è una città sul mare, una città di confine. Che lo si faccia tra le barche a vela baciate dal sole estivo o durante le giornate di bora invernali, in questa stupenda città si può passeggiare avvertendo nell’aria di essere in un posto che può raccontarci tanto della nostra storia. E’ questa l’emozione che ho provato durante la mia visita nel mese di ottobre. Ciò diventa certezza quando, sul lungomare, ci si imbatte nelle cancellate e transenne che chiudono il vecchio porto. Un luogo abbandonato e interdetto. A entrar dentro un silenzio angosciante è accompagnato solo dal rumore del vento. Camminando scorrono, uno dopo l’altro, decine di immensi magazzini dalle facciate distrutte e le porte arrugginite per l’abbandono. Questi immensi sarcofagi sono i soggetti di un quadro la cui cornice è fatta da vecchie strade dove ormai è cresciuta l’erba selvatica anche al centro delle carreggiate, calcinacci, mattoni accatastati, intonaci crollati. Tra gli spettri della memoria e la voglia di sapere è qui che, dopo qualche minuto di cammino, ci si imbatte nel Magazzino numero 18. In questo, diventato famoso grazie allo spettacolo realizzato dal cantautore romano Simone Cristicchi, sono conservate le masserizie degli esuli, figli di Italia che perse la guerra; era l’inverno del 1947 ed il trattato di Parigi aveva sancito che le terre orientali non sarebbero più state Italia. Trecentocinquantamila anime abbandonarono le loro case e si diressero verso l’Italia. Con loro portarono quanto possibile; gli oggetti di una vita. I propri mobili, gli attrezzi, le fotografie, i quaderni e i libri. Ma anche i telai delle finestre delle proprie case; che, spoglie e nude, potevano essere abbandonate con, almeno, l’illusione di portarne con sè l’anima. Il proprio nido, la casa dove si era cresciuti, continuava a vivere in quegli oggetti. La realtà dell’esodo, però, fu triste e dura. Gli esuli vennero destinati a campi profughi in varie parti di Italia e, in questi, non vi era posto per quelle masserizie. Tanti, quindi, le lasciarono pensando, un giorno, di recuperarle. Ma molte di queste vennero, poi, abbandonate per sempre.
Aperta la porta del magazzino, entrando, sulla sinistra, su una parete, appare un manifesto patriottico che ricorda la tragedia. Delle vecchie scale, poi, conducono al piano superiore dove, superato l’ingresso, ha inizio un viaggio silenzioso e composto nel dolore e nella storia della vita di tanti. Fotografie in bianco e nero di uomini, donne, bimbi, famiglie, guardano il visitatore come a dargli il benvenuto. Il pensiero va subito alle case, alle pareti, dove queste foto avevano posto. E ti domandi, guardando le foto dei più piccoli, dove saranno adesso; cosa sarà stato delle loro vite. Qualcuno di loro, forse, oggi, sarà in Australia o in Argentina. In una stanza attigua sono musealizzate alcune masserizie, prese dalle cataste del fondo del magazzino per essere meglio illustrate dalla guida. Al centro valigie e casse dell’esodo; sui lati un letto, armadi, mobili da bagno e da cucina; vi sono anche le stoviglie dell’epoca: piatti, bicchieri e posate. Chissà a chi appartennero. Sulle pareti, gigantografie di alcune foto ricordano il duro inverno e il viaggio; e lì, tra le tante figure, compare quella di una giovane donna protagonista di una bella pagina di questa storia. Immortalata, per caso, dai fotografi dell’epoca, questa tiene in mano una sedia; la sua sedia dove, in casa, sedeva sempre. La porta via con se, come una “coperta di Linus”. E’ una figura dolcissima. Qualche anno fa, a tanti decenni di distanza, durante un evento culturale legato a questa vicenda, vennero mostrate quelle fotografie. Una signora, commossa, si alzò in piedi e disse: “quella son mi, con la mi sedia!!!”. Quella giovane donna della foto era lei e si era riconosciuta emozionando tutti i presenti.
Tra polvere e ombre si prosegue la visita che, a quel punto, porta al “vero” magazzino. Una porta sulla sinistra si apre su un corridoio. In questo, scaffali con martelli, chiodi, attrezzi dell’epoca. Vicino all’ingresso una catasta di materiale da cartoleria, nuovo. O meglio mai usato, ma vecchio di decenni. Sulla sinistra una prima stanza è colma di libri. Vi sono testi che riempivano le librerie delle case ma anche libri di scuola dei ragazzi. Al centro, in degli scatoloni, vedo dei quaderni impolverati. Ne apro uno e leggo i compiti di un bimbo di quarta elementare del 1946. Sulla copertina posteriore del quaderno compare la scritta “ʍ tito”…
Un’altra stanza adiacente è colma di lampadari, cristallerie e oggetti di ogni tipo. Poi, nel fondo, il grande ambiente tetro dove è conservata la maggior parte di quegli oggetti. Nel buio, squarciato solo dai raggi di luce che penetrano dai vecchi vetri rotti alle finestre, si delineano i profili di armadi, cassettiere e spalliere dei letti; sono accatastati a formare dei muri che separano corridoi che nascono dalla loro presenza. Si entra in questi corridoi e si percorrono le strade della memoria. Una sensazione di stupore e disagio difficile da spiegare che cresce ad ogni minuto passato li dentro. Percorrendo, metro dopo metro, quei corridoi spettrali, le masserizie sembrano indicarti la via verso il luogo più importante di tutto il magazzino: la catasta delle sedie. Queste, al fondo del magazzino, conservate alle rinfusa una sopra l’altra, alcune rivolte verso l’alto, sembrano quasi una rappresentazione dell’inferno dantesco. Senza volontà di alcuno, per caso, quel modo di conservarle ha assunto una dimensione artistica che colpisce e parla. I visitatori restano fermi e in silenzio, al termine della visita, davanti a queste “reliquie” dimenticate in questo santuario del dolore. Pochi minuti ancora e il Magazzino numero 18 si chiude alle spalle di chi ha appena fatto un viaggio nel tempo. Poco fuori la porta, dalla terrazza del primo piano, tra un magazzino e l’altro, si scorge l’azzurro del mare. Nel silenzio, l’unica voce che si ode è quella del vento.