Il Partito Democratico è, sin dalla sua nascita, un luogo ideale di contrasti e frizioni. Il motivo è presto detto: nel panorama politico moderno questo contenitore venne lanciato da un Veltroni “a vocazione maggioritaria” che per primo portò il testimone dell’unione tra ex forze democristiane e quelle ex comuniste. Il vecchio PCI, ormai sotto un altro nome ma guidato dalla stessa dirigenza, e il partito che aveva il nome di ”margherita”, convolarono a nozze senza che nessuno si ponesse il problema di quanto le matrici ideologiche opposte avrebbero reso quel “matrimonio” difficile e probabilmente pieno di litigi. Quegli anni sono lontani certo; i processi di cambiamento nel PD sono stati molteplici ma, a guardar bene, lo spettro di quelle contraddizioni non è mai scomparso. E’ il caso, possiamo dirlo certamente, dello scontro che si sta verificando sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Il contesto è quello della riforma chiamata “job act”. Un tema delicato che non da pochi giorni anima il dibattito, anzi; ma è il balletto di dichiarazioni avvenute intorno alla “Leopolda renziana” che ci indica che nella sinistra italiana c’è aria di guerra. Non è tanto da un punto di vista squisitamente tecnico, e quindi nel merito delle norme con cui si regolerà il licenziamento dei lavoratori, che l’argomento fornisce spunti di riflessione politica; ma certamente da un punto di vista “ideale” e per la portata simbolica che la tutela dei lavoratori, anche attraverso il simbolo dell’art.18, ha nella storia del vecchio partito comunista e, quindi, nell’anima di una parte della odierna classe dirigente del PD. Questa, lo sappiamo benissimo, è legata a doppio filo col sindacato rosso, quella CGIL che qualche giorno fa ha organizzato l’ennesima manifestazione densa di nostalgia e vecchie logiche. E’ vero, lo condivido anche io, che il nuovo corso del PD, quello renziano, ha dato una smossa a una casa vecchia e piena di “limiti”. E’ però altrettanto vero che l’ex sindaco di Firenze, politicamente, deve fare i conti con una realtà parlamentare che spesso molti dimenticano quando, invece, deve essere protagonista di ogni valutazione. Il parlamento si è formato, infatti, dopo una consultazione elettorale che vedeva “candidarsi” alla carica di premier Pierluigi Bersani; egli era infatti il segretario del PD. Proprio per questo i seggi di suo riferimento, i parlamentari che non rispondono a Renzi, sono molti e compongono un esercito importante.
Renzi, per aggirare il problema, è stato protagonista del patto del Nazareno, che gli assicura appoggio da forze esterne al partito; questo può ragionevolmente farci pensare che Matteo riuscirà a far approvare alcune riforme ma, altrettanto ragionevolmente, non possiamo non comprendere quanto, all’interno del partito, la sua posizione sia tutto tranne che sicura. Dicevamo della leopolda, una passerella importante, mediaticamente, che ha visto però l’assenza dei tanti oppositori interni. Un segno importante a cui Renzi ha risposto con dichiarazioni al veleno sul non voler permettere che il PD torni al 25%. Anche la manifestazione della CGIL ha ricevuto critiche e si è registrato un botta e risposta durissimo tra il premier e la Camusso. Il primo, in modo irriverente, ha affermato che l’Italia che crea lavoro non era in Piazza San Giovanni. La Camusso ha risposto che non è levando i diritti ai lavoratori che si crea il lavoro. Da cornice le dichiarazioni ostili di Civati e della Bindi, che disegnano un quadro evidentemente di guerriglia nella casa che vide i natali a botteghe oscure. Quale “Vietnam parlamentare” dobbiamo aspettarci da parte di tutti quei “soldati” che non fanno capo a Renzi? Non lo sappiamo ancora ma sicuramente oggi possiamo esser certi di una cosa. Con questi chiari di luna, se non sarà scissione, sicuramente è molto difficile che si torni a votare a scadenza naturale del mandato. Si voterà presto, molto presto.