La tragedia dell’esodo istriano e delle vicende avvenute al confine orientale sul finire del secondo conflitto mondiale, sono da qualche anno sotto la luce di tardivi riflettori. Settanta anni di silenzio per un Paese che ha visto dimenticare i suoi figli perseguitati dalla pulizia etnica che ordì il Maresciallo Tito. E’ stata istituita una giornata della memoria ma, ancora, in tanti non conoscono questi temi. Nel mese di febbraio Eleggo ha narrato di questa storia e di un luogo, il Magazzino 18 del vecchio porto di Trieste, dove riposano le masserizie degli esuli, abbandonate nella speranza, un giorno, di essere recuperate. Proprio da questo luogo nasce l’idea di uno spettacolo teatrale. Fu Simone Cristicchi e idearlo e una grandissima parte dei meriti della divulgazione di verità e della creazione di coscienza storica in molti, non è una cosa da poco, vanno certamente a lui. Porto testimonianza sincera di un uomo mite e per bene, gentile e disponibile verso chi, domanda dopo domanda, con passione, voleva sapere un po’ come era nato tutto questo. L’ho incontrato proprio al termine di una rappresentazione di Magazzino 18 avvenuta al Teatro Biondo di Palermo, nel mese di aprile.
Nel mese di ottobre mi sono recato a Trieste e, visitando il Magazzino 18, il Direttore dell’IRCI Piero Del bello ci ha narrato la tua visita in questo luogo protagonista del tuo spettacolo. Come venisti a conoscenza di quella storia dimenticata e quando ti venne in mente di visitare il magazzino?
“E’ iniziato tutto dalla lettura del libro di Jan Bernas “Ci chiamavano fascisti, eravamo Italiani”. Mi colpì questo titolo e cominciai ad approfondire questo argomento. Un anno dopo mi recai a Trieste e feci delle interviste agli anziani. Qualcuno mi narrò l’esistenza di questo luogo. Io volli andare a visitarlo a tutti i costi ma nessuno aveva le chiavi per aprirlo; di conseguenza arrivai a Piero Del Bello. Lo chiamai e lui mi portò a visitarlo. Quando sono uscito da quel luogo, dove avevo visto quello che hai visto anche tu, questa grande catasta di oggetti, rimasi molto impressionato al punto, poi, di fare altre domande, di farmi spiegare. Fu proprio Piero, con il suo modo di pormi questa storia, a farmi appassionare ancora più di prima. Gli dissi che avrei fatto qualcosa per loro, per quella storia, e mi consigliò di scrivere uno spettacolo. Io risposi pensando di cominciare scrivendo una canzone; la canzone “Magazzino 18” andò a comporre il mio quarto album, e accettai questa sfida di prendere l’onore e anche l’onere di costruire e inventare lo spettacolo.”
Chi, come noi, è entrato in quel posto può comprendere a fondo le sensazioni che possono esser provate. Quelle strade abbandonate del vecchio porto, quelle porte arrugginite, in compagnia solo di quel vento che rompe il silenzio e che ti accompagna tagliandoti la pelle del viso. Quali emozioni hai provato entrando in quel magazzino?
“Un senso di disagio perché sembrava di entrare nell’intimità della vita delle persone. Quasi una sensazione di sacrilegio. Poi un dolore forte che mi ha scosso e un senso di vergogna per non aver potuto approfondire prima quella storia.”
In ogni momento di quella visita si provano tante emozioni ma il luogo che colpisce di più, secondo me, è l’angolo delle sedie. Accatastate a casaccio con le corna all’insù, come fossero demoniache. Ci è stato raccontato che è li che ti venne l’idea di fare uno spettacolo. Puoi raccontarci quel momento? Quando vedesti quelle sedie cosa si aprì nella tua mente?
“Ho pensato a una istallazione di arte contemporanea e al fatto che una immagine del genere io non la avrei mai più potuta rivedere; è quasi irriproducibile a meno che un artista matto si possa inventare una cosa del genere. L’immagine di quella catasta di sedie mi ha richiamato subito la fagotteria dei manicomi, Auschwitz; mi ha richiamato, insieme ai tanti oggetti, il ricordo di tante vite sradicate con identità perdute.”
Magazzino 18 è uno spettacolo senza, è evidente, matrice ideologica commissionata da alcuno. Ha il solo scopo di raccontare la storia dimenticata di tanti nostri connazionali. Ma siamo in Italia, un Paese con una storia culturale difficile. Un Paese passato da una dittatura totalitaria ad una egemonia culturale altrettanto totalitaria che, con isterismo e violenza, proscrive chi non si piega al pensiero unico. Giornalisti e uomini di cultura di sinistra, come Giampaolo Pansa, sono stati aggrediti e aspramente criticati per aver operato fuori dagli schemi e aver narrato verità scomode. Elementi propagandistici di provenienza neofascista e xenofobi; vulgata antislava per le foibe; volontà di creare vergogna per chi combattè il fascismo: queste alcune delle parole rivolte al tuo spettacolo da un esponente dell’ANPI, Silvio Antonini. Lui scrisse, per di più, che aveva visto un estratto di 5 minuti; evidentemente non aveva bisogno di guardarlo proprio, lo spettacolo, perché le sue opinioni erano già formate. Anche Andrea Martocchia, senza bisogno di vedere lo spettacolo, si inserì con saccenza nella diatriba dandoti, velatamente, dell’ignorante. A guardare lo spettacolo si resta basiti da tanta violenza ideologica in chi ti ha criticato. Sembra quasi che vi sia, in alcuni, una necessità di odiare per sentirsi vivi; ancor oggi. Come ti sei sentito umanamente leggendo quelle parole? Cosa hai provato e cosa rispondesti?
“Sono dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano. Io sono convinto che la mia generazione e quella che verrà dopo di me si priverà delle zavorre ideologiche, senza dimenticare gli errori del passato ma cercando, dalla conoscenza di questa storia e da tante altre, di migliorare. Imparare il senso della pietas che la gente che ha pronunciato quelle parole credo che non abbia; il senso della compassione. Il fatto è che queste parole non offendono assolutamente me ma un intero popolo; un popolo verso il quale noi dobbiamo essere riconoscenti in qualche modo. E’ questa la cosa che più mi ha fatto male: vedere vilipesa la loro memoria. Ho incontrato un signore molto anziano, ad Udine. Mi disse che, dopo settant’anni, non sapeva dove portare un fiore per il padre scomparso; era stato portato via una notte e non se ne seppe più nulla. E per tutta la vita, questo signore, aveva sperato che qualcuno gli dicesse dove poter andare a fare una preghiera per il padre. Basterebbe soltanto questo per cancellare tutto quello che è stato detto.”
Si può certo comprendere la faziosità violenta di chi ha una storia personale da difendere, fatta di decenni di guerra sul campo di battaglia della cultura e del racconto storico. Questi soggetti non fanno piangere il cuore e spesso meritano l’oblio; non è così, però, per i ragazzi giovanissimi, inconsapevoli, che hanno fatto irruzione nei teatri e manifestato contro di te, anche loro senza aver visto prima lo spettacolo. Quando i vecchi, durante queste manifestazioni, gli chiedevano di guardarlo insieme, loro si rifiutavano. I giovani sono sempre incolpevoli, sono puri e se vi è una macchia sul loro vestito bianco è colpa dei padri. Se potessi parlare a quei ragazzi, che sono l’anima della società, quale pensiero vorresti rivolgergli?
“Mi dispiace ma con in ragazzi che contestano io non posso stare sullo stesso piano. Ma non perché io mi senta superiore. Perché io sono un’artista e lavoro con la parola, con il racconto, con la musica e la poesia. Sono due mondi completamente diversi. Mi auguro che un giorno possano non giustificare nessun crimine che sia di destra o di sinistra: questo è il punto! Un punto che probabilmente ha creato disturbo a qualcuno. Il mio spettacolo non vuole assolutamente giustificare nessun crimine come spesso si usa come alibi parlando del fascismo, ad esempio. Però avere la fobia di vedere fascismo ovunque, anche dove non c’è, è un errore clamoroso; è un autogol. Per fortuna queste persone sono una piccola minoranza. Io mi rivolgo a un pubblico molto più vasto, con grande responsabilità, e credo di essere arrivato a un equilibrio nel racconto cercando di non fare sconti a nessuno e rendere giustizia, in qualche modo, a chi è stato stritolato dalle due grandi ideologie che si sono contrapposte. Le ideologie non hanno fatto altro che dividerci come comunità, smembrarci, metterci l’uno contro l’altro. Ancora oggi, purtroppo, succede questo. Per andare avanti, come Paese, dovremmo ritrovare il senso di comunità che ci insegnano proprio gli esuli istriani con questo attaccamento, non dico tanto alla bandiera, ma all’anima di un popolo. Sono passati 70 anni. Che senso ha oggi farci la guerra su cose per la quali, noi, non abbiamo nemmeno colpe?”
Parlando di aspetti gioiosi. Quando ancora lo spettacolo doveva debuttare queste furono le tue parole: “Visto il clima creatosi, sarà arduo riuscire a far voltare pagina. L’unica cosa che mi interessa è rendere omaggio agli esuli e alla loro storia nel migliore dei modi possibili”. Ecco, durante le varie rappresentazioni teatrali che si sono via via susseguite, sono ovviamente tantissimi gli esuli che sono venuti a vederlo. Tanta commozione, lacrime di nostalgia, di rimpianti, di dolori; ma anche di gioia per quel nuovo amico, Simone Cristicchi, che si era messo sulle spalle quella storia per celebrarla. Quelle persone piene di dignità, gli esuli, che hai incontrato in questi anni, cosa ti hanno lasciato dentro? Hai fatto amicizia con alcuni di loro? Puoi descriverci l’emozione che hai visto nei loro occhi nel vivere questo spettacolo?
“Una signora a Trieste mi ha fermato per la strada e mi ha detto che adesso poteva morire contenta perché qualcuno avrebbe raccontato la sua storia e quella del suo popolo. Questo è stato il complimento più bello che ho ricevuto. La vera grande emozione, per loro, sta nel fatto che i loro connazionali vengano a conoscenza di quella storia e lo facciano attraverso la musica, attraverso la poesia, attraverso l’arte, più che con un libro o una conferenza di storia. Poi, ovviamente, ognuno è libero di andare ad approfondire l’argomento come vuole però il fatto che una comunità intera si ritrovi a teatro in qualche modo avvicina la gente a questo strumento che crea una sorta di catarsi, di cambiamento: chi esce dal teatro dopo aver visto questo spettacolo credo che non sia la stessa persona di prima; ma non perché io sono bravo o sono un bravo artista, ma perché semplicemente ci si arricchisce di un qualcosa che prima non si sapeva.”
“Magazzino 18″ ha dato ancor più celebrità ad un’artista già importante, tu. Ma uno spettacolo è un concerto che, per vivere, vede la partecipazione di tanti strumenti. Quale è la squadra che ha reso possibile questo successo? Quale lavoro è stato svolto e chi ha collaborato con te al progetto?
“Innanzi tutto Piero Del Bello perché è stato lui a convincermi che io potessi raccontare la loro storia, da romano, da esterno. In secondo luogo Jan Bernas, che ha firmato con me il testo dello spettacolo e per finire tutto il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Io ho creduto in questo progetto, molto delicato per il luogo in cui è stato prodotto e ha debuttato. Ovviamente fondamentale è stato il regista Antonio Calenda, che mi ha trasformato in un attore nel giro di pochissimi giorni; ha fatto un lavoro molto accurato sulla mia recitazione senza esser troppo enfatico né neutrale. E ancora tutta la squadra di tecnici, scenografi, di ricercatori video che hanno contribuito al risultato finale.”
E’ l’ultima domanda e ringraziandoti colgo l’occasione di questa intervista per portare a conoscenza del pubblico anche altri tuoi stupendi spettacoli che, sempre in ambito storico, raccontano vite e storie che sono nostro patrimonio di memoria. Ad esempio “Mio nonno è morto in guerra”. Di cosa parla questo spettacolo?
“E’ lo spettacolo precedente a “Magazzino 18” e ne contiene anche un piccolo estratto. E’ una raccolta di aneddoti e storie della seconda guerra mondiale che sono andato a cercare intervistando gli ultimi anziani ancora viventi, gente tra gli 85 e i 97 anni che avevano vissuto quel periodo. Queste storie sono diventate un libro con 60 racconti che ha pubblicato Mondadori qualche anno fa e in secondo luogo sono diventate uno spettacolo. Ho scelto 14 di queste storie e le ho portate in scena recitandole e raccontandole.”