La tragedia dell’esodo delle popolazioni italiane che vivevano oltre il confine orientale per tanti decenni ha visto poca visibilità e commemorazione. La voglia di sapere mi ha portato, nel mese di ottobre, a recarmi due volte a Trieste dove, dopo un primo tentativo andato a vuoto, sono riuscito a visitare il Magazzino numero 18. E’ qui che, come fosse un premio alla tenacia, ho fatto un gradevole incontro. In questo luogo, nel vecchio porto di Trieste, sono conservate le masserizie degli esuli. Letti, sedie, armadi, cucine, macchine da scrivere; ma anche libri, quaderni, attrezzi di ogni tipo. Oggetti troppo ingombranti e pesanti da portare lungo il viaggio verso la propria destinazione e quindi abbandonati in attesa di essere, un giorno, forse, recuperati. Oggetti che rappresentano ricordi di vita quotidiana e che sembrano animarsi e quasi parlare, raccontare quella storia, con compostezza e dignità. La stessa di Flavio Rabar, un uomo mite e per bene. Un italiano, un esule.
Signor Rabar, la prima domanda di questa intervista è inerente proprio il luogo del nostro primo incontro. Il “Magazzino 18”, al vecchio porto di Trieste, dove sono conservate le masserizie degli esuli. Quel luogo spettrale e denso di storia mi ha colpito nel profondo ma le mie sensazioni possono soltanto essere minime rispetto a quelle di una persona che, come lei, ha vissuto in prima persona quella tragedia. Che sensazioni e quali emozioni ha vissuto nel visitare quel magazzino?
“Pur non essendoci nulla della mia famiglia la sensazione è stata di vivere quel senso di abbandono di cose care e quotidiane che avranno accompagnato gli esuli giuliano dalmati verso altre mete. Il tutto non può che provocare una forte partecipazione verso coloro che hanno lasciato una parte della loro vita all’interno di un anonimo magazzino.”
Ci racconti di lei, della sua vicenda personale e familiare. Chi erano i suoi genitori, dove abitavate e chi era lei al tempo dell’esodo. Quanti anni aveva? Con che mezzi e attraverso quale percorso lasciaste le vostre terre per giungere in Italia?
“I miei genitori abitavano a Fiume, nel rione Cantrida in Viale Italia n. 19. Mio padre Eugenio nacque a S.Polten, in Austria, nel 1917, dove i suoi genitori si erano trasferiti durante la prima guerra mondiale. Mia madre Stranich Irene nacque a Pola nel 1918; la sua famiglia si trasferì a Fiume quando era bambina. Personalmente, essendo nato il 29 gennaio 1943, non posseggo ricordi di quel periodo. La mia famiglia lasciò Fiume nel febbraio 1947, seguita, alcuni anni dopo, dai nonni materni. Il fratello di mio padre, Ludovico, ed i nonni paterni rimasero a Fiume; un esempio, non unico, di come molte famiglie si divisero. La mia famiglia partì da Fiume tramite la ferrovia, con tratte di viaggio anche in carri bestiame.”
Molti esuli raccontano che, nelle loro famiglie, durante tanti decenni, spesso è avvenuta una reazione psicologica di chiusura verso il ricordo. Una autocensura anche nel proprio privato. Non si parlava dell’esodo, quasi a voler cancellare dalla propria memoria quel pezzo di vita strappata; forse per non rivivere quel dolore. E’ stato così anche nella sua famiglia o nel vostro privato commemoravate e raccontavate? E cosa pensa di questo fenomeno di autocensura che ha colpito tanti?
“Molti esuli non volevano ricordare quanto patito nel lasciare le loro terre per non rivivere momenti estremamente dolorosi ed, a volte, drammatici. La mia famiglia era presa dai problemi quotidiani: il mettere assieme il pranzo con la cena, l’insistente ricerca di un lavoro; qualsiasi lavoro. Io e mia sorella eravamo dei bambini ed i genitori ritenevano inutile il raccontare a noi le loro sofferenze e la loro grande nostalgia per i luoghi e la vita di un tempo. Successivamente, quando siamo diventati più grandi, hanno raccontato alcuni aspetti e fatti sia della vita a Fiume sia delle sofferte vicende successive. Sono a conoscenza del fatto che altre persone non ne hanno mai voluto parlare; ed anche con il trascorrere del tempo e del mutare delle condizioni politiche non hanno mai voluto non solo parlarne ma, anche, ritornare dove erano nati. Naturalmente sono posizioni da comprendere, ma è un peccato non abbiano mai voluto far conoscere a fondo gli avvenimenti che li hanno interessati, utili non solo a familiari ed amici ma, più in generale, a storici e giornalisti per diffondere la dura realtà che una parte del popolo italiano ha dovuto affrontare.”
L’esperienza del campo profughi è stata una tragedia nella tragedia. Intere vite furono estirpate dalla propria terra, ma, in più, purtroppo, l’Italia non accolse i suoi figli più sfortunati con l’amore necessario. In quale campo è vissuto e per quanti anni? Come era scandita la vita in questo luogo? Quali difficoltà umane ed esistenziali, oltre che pratiche, condizionarono la vostra vita? Come l’animo umano suo, e di tanti, reagì a quella condizione?
“La mia famiglia, nel 1947, venne destinata al Campo Profughi di Ferrara, uno dei 109 presenti in Italia. Si era ospitati in un edificio appartenuto a una nobile famiglia ferrarese e, poi, adibito a sede dell’istituto Magistrale. In un’aula trovavano rifugio due, tre, quattro famiglie; dipendeva dall’ampiezza del locale e del numero dei componenti dei nuclei familiari. Questi erano divisi da coperte stese verticalmente su fil di ferro; non vi era, ovviamente, alcuna riservatezza. Oltre ai servizi da effettuare al campo profughi vi era la ricerca di una qualche attività lavorativa per riuscire a migliorare le proprie condizioni. Il 14 agosto 1947 nacque, presso il locale ospedale, mia sorella Neda e, naturalmente, era la principale preoccupazione dei genitori. Nell’agosto del 1949 il campo profughi venne chiuso e la mia famiglia venne mandata a vivere in una baracca di legno, in località Pontelagoscuro, vicino al fiume Po. Vi erano nove baracche, ciascuna con sei famiglie, divise in piccoli appartamentini. Eravamo in compagnia di famiglie ferraresi del luogo che avevano perso la casa per i bombardamenti aerei. Avevano raso al suolo tutte le abitazione nelle due sponde del Po. In tali condizioni rimanemmo sette anni. L’accoglienza nei vari luoghi fu, da principio, improntata a diffidenza; ma questa scomparve con il passar del tempo e si instaurarono anche solide amicizie.”
E’ passato qualche anno, ormai, da quando venne istituita la giornata della memoria dell’esodo, che si tiene il 10 febbraio. Lentamente si è iniziato a parlare di foibe e di quella vicenda; ma è anche grazie all’artista Simone Cristicchi che questa storia ha avuto maggiore visibilità. Egli visitò il Magazzino 18 e decise di raccontare quella storia con uno bellissimo spettacolo che ha fatto emozionare tanti uomini e donne che avevano tenuto nel segreto del loro cuore quella storia importante. Come reagì quando seppe di questo spettacolo? Le è piaciuto? Cosa ne pensa?
“Con il Giorno del Ricordo, istituito con la Legge n. 92 del 30 marzo 2004, il 10 febbraio di ogni anno – la data si riferisce al 10 febbraio 1947, firma a Parigi del trattato di pace – finalmente si poteva parlare liberamente e commemorare pubblicamente i dolorosi eventi del nostro confine orientale, avvenuti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Lo spettacolo Magazzino 18, del cantautore romano Simone Cristicchi, ha portato ad una conoscenza diffusa degli avvenimenti; molti dicono sia stato più efficace di un trattato storico e, personalmente, sono d’accordo, stante anche la grande diffusione. Ho avuto modo di vederlo il 30 luglio 2014 a Badia Polesine (RO) e ne sono rimasto estremamente soddisfatto, ed anche emozionato. La trama è documentata, fatta in modo intelligente, razionale nonché fortemente coinvolgente. L’artista ha avuto il merito di non nascondere le sofferenze inflitte alle popolazioni slovene e croate: la proibizione di parlare in pubblico nella loro lingua, la chiusura di giornali e delle associazioni ricreative e culturali e, in generale, le violenze avvenute a seguito dell’invasione italiana della Jugoslavia. Di contro, lo spettatore, nel percorrere la storia degli italiani nella Venezia Giulia e Dalmazia, ha modo di toccare concretamente quante violenze sono state inflitte a tante, troppe persone innocenti che da secoli vivevano pacificamente in quelle terre e la cui colpa era quella di voler rimanere italiani.”
Purtroppo, per tanti decenni, come accennato, questa storia è stata vittima di un oblio. Negli ultimi anni il giornalista Giampaolo Pansa ha preso sulle spalle i tanti silenzi di quegli anni e, con pacatezza e distacco, ha messo su carta tante storie di dolore narrate nelle lettere private da lui ricevute. Nei suoi ultimi libri ci ha raccontato che alcune delle forze che parteciparono alla “liberazione” dell’Italia avevano come “alleato” il maresciallo Tito e molti compatrioti, quindi, non si opposero a quell’orrore. In più, durante gli anni successivi, furono protagonisti della voglia di non ricordare e di tanti tentativi di mistificare la verità. Una verità che appare chiara e lampante in una strofa di una canzone dello spettacolo di Cristicchi: “ci chiamavano Fascisti, eravamo solo italiani”. Già, eravate solo italiani, colpevoli solo della vostra sfortuna. Eppure, molti di voi, giunti in Italia, vennero accolti da insulti e violenza. Tanti, in patria, per ciò che era stato raccontato, vi credevano colpevoli di qualcosa. Alla stazione di Bologna un treno di esuli venne raggiunto da sputi e atti di violenza. La sua famiglia fu vittima di azioni di questo tipo e della diffidenza? Cosa pensa di quegli anni? Cosa pensa di quegli insulti e di quella violenza? E cosa pensa dei tanti decenni di oblio protagonisti di questa storia?
“E’ vero: siamo stati tutti etichettati come fascisti dalla sinistra italiana del tempo. Non capivano perché avessimo abbandonato i nostri luoghi invece che rimanere a vivere in uno Stato democratico in cui il potere era del popolo, con giustizia sociale ed uguaglianza. La propaganda politica, in merito all’esodo, era forte e pressante per cui, se si era fuggiti, era perché le persone potevano essere compromesse con il fascismo o perché erano criminali che fuggivano dalla giusta punizione. In verità, i circa 350.000 italiani che lasciarono le loro terre rappresentarono la risposta corale di un popolo al non essere oppresso; non per la sua appartenenza al fascismo, ma per quella appartenenza rappresentata dalla lingua ed dalla cultura italiane. La prima parte della domanda è un passaggio delicato. La Germania nazista aggredì stati democratici e stati totalitari; tutti si unirono per abbattere Hitler ed anche Tito divenne un alleato non solo dell’Unione Sovietica ma anche delle democrazie occidentali. Per la preminenza di sconfiggere il nazifascismo il resto non veniva considerato. Successivamente alla fine della guerra, dopo un periodo di aspro confronto dialettico, l’allontanamento di Tito – giugno 1948 – dall’egemonia di Stalin, portò le potenze occidentali ad aiutare la Jugoslavia mettendo la sordina, se non il silenzio assoluto, alle atrocità commesse da Tito che sono compiutamente venute alla luce con l’istituzione del Giorno del Ricordo. Prima solo gli esuli e gli abitanti delle provincie di Trieste e Gorizia conoscevano a fondo quanto avvenuto. Ora, invece, non solo si conosce, anche se ancora in modo parziale, ma si comprende l’ingiustizia commessa.”
In una visione storica e capendo le passioni politiche che hanno mosso il cuore e le azioni di tanti, forse si può comprendere, in quegli anni e nel periodo successivo, il comportamento errato di molti nei vostri confronti. Tanti, forse, non erano consapevoli ed erano mossi dalla buona fede. Dopo decenni, invece, come ha dichiarato Giorgio Napolitano, ci si può ritrovare uniti nei valori resistenziali senza però dimenticare “eccessi, zone d’ombra e aberrazioni”. Il pensiero, leggendo queste parole, va a tante vicende di quel tempo; e certamente la più importante è la vicenda che riguarda voi, a cui inizia ad arrivare il calore e l’affetto di tanti italiani che quella storia, anche se in ritardo, hanno cominciato a studiarla e a conoscerla. Ciò che addolora davvero, invece, è vedere come alcuni, ancor oggi, continuino ad osteggiare il racconto della verità. Lo spettacolo di Cristicchi, ad esempio nella città di Roma, è stato protagonista di atti di violenza presso il luogo dove era in programma. Molto spesso a compiere questi atti sono dei giovani come me, che potrebbero essere dei suoi nipoti. Cosa pensa di questi gesti e cosa sente di dire a questi ragazzi?”
“Per noi esuli ha avuto una grande importanza il discorso pronunciato dal Giorgio Napolitano al Quirinale il 10 febbraio 2007. Disse chiaramente che nei confronti degli italiani venne effettuata una pulizia etnica; dichiarazione che, all’estrema sinistra ed anche ai governi di Croazia e Slovenia, risultò assai sgradita. Ma l’anno dopo Napolitano ribadì le sue posizioni espresse nel 2007. Purtroppo la visione esclusivamente ideologica, fortunatamente nettamente minoritaria, in alcuni settori politici e culturali è ancora forte, anche se con meno seguito. Ho letto un’affermazione secondo la quale, dopo la fine della guerra, nel maggio 1945, solo alcune decine di persone finirono nelle foibe. Volontà di nascondere la realtà e falsità in abbondanza, quindi; come nelle contestazioni allo spettacolo di Cristicchi, assai poche. Una di queste avvenne nel teatro di Scandicci (FI). I contestatori, con striscioni, occuparono il palco. Un’esule di 80 anni invitò i giovani a guardare lo spettacolo e poi parlarne assieme ma questi presero i loro striscioni ed uscirono, dando dimostrazione di fedeltà ideologica; tra l’altro di ideologia che, dove applicata, i popoli hanno rifiutato.”
Come lei mi ha accennato, la sua storia è narrata in un piccolo libro. Come nasce questa pubblicazione? Quando è iniziata in lei la voglia di operare attivamente per dare testimonianza di quegli anni? Ha partecipato e portato la sua testimonianza in eventi e incontri culturali che avevano come protagonista l’esodo? Se si, quali?
“Ho iniziato ad interessarmi a fondo delle vicende del confine orientale tardi, nel 2006, insieme al presidente della locale sezione dell’Associazione Partigiani Cristiani, che da allora collabora attivamente con noi. Gli eventi: nel 2007, a Ferrara, una mostra con il percorso dalla fine ottocento all’esodo; nel 2008 i campi profughi, con la collaborazione dell’I.R.C.I. di Trieste; nel 2009 una mostra su Cherso, Lussino e Zara; nel 2010 una mostra sull’architettura adriatica tra le due sponde. Negli anni successivi una serie di concerti, incontri, conferenze e momenti istituzionali. Desidero fare rilevare che, a Ferrara, nella nostra Associazione non vi sono 4 gatti, bensì 44 gatti; tale è il numero degli associati. Naturalmente con simili forze non si fa molta strada ma, fortunatamente, abbiamo incontrato la piena disponibilità e il sostegno dell’Amministrazione Comunale.”
Come è la sua vita oggi? E la sua famiglia? Dove l’ha portata il destino? Quanto è stato importante, in famiglia, tramandare il sapere di quella storia?
“Ora abito a Ferrara; ho sposato una ragazza ferrarese da cui ho avuto due figlie. Purtroppo mia moglie è mancata nel 2004 ed ora vivo da solo. Le mie figlie sono assai interessate all’argomento. La primogenita è sposata ed abita anche lei a Ferrara. E’ segretaria del comitato ed è assai partecipe. L’altra vive a Londra e mi aiuta per l’inserimento di immagini e notizie sul sito del comitato ANVGD di Ferrara e su Facebook, un ottimo appoggio informatico.”
Tzvetan Todorov, parlando al mondo, scrisse: “la vita ha perso contro la morte, ma la memoria vince nella lotta contro il nulla”. Signor Rabar, quanto è importante, per lei, l’uso della memoria? Quale messaggio deve arrivare ai giovani delle nuove generazioni?
“La memoria ha un’importanza fondamentale, in particolare per questi fatti per troppo tempo non conosciuti. Per me è assai positivo che negli incontri con gli studenti riscontri silenzio, attenzione ed anche meraviglia per eventi di cui i ragazzi non hanno mai sentito parlare; una mancanza di conoscenza spesso protagonista anche negli insegnanti. Il portare, ad esempio, a quegli incontri, una signora esule da Piemonte d’Istria a raccontare la sua esperienza personale – lasciò il suo paese a 9 anni – riscontrò un’attenzione eccezionale ed, alla fine, molti studenti si avvicinarono a lei per spontanei complimenti.”
Signor Rabar, come le ho detto, questa è la prima intervista che questo giornale on-line, fondato da pochissimo, pubblica. Un giornale che vuole essere un laboratorio di libere idee e una “casa” per importanti testimonianze. Sono onorato della attenzione che ha voluto dedicarci e, oltre che personalmente, la ringrazio sentitamente a nome della Redazione di Eleggo.info.