di Manfredi Miconi
C’è una cosa nella quale noi Italiani siamo famosi nel mondo. No non ha nulla a che fare con la nostra simpatia, con le arti visive, la musica, la poesia, il bello. Niente di tutto ciò. Quello che i popoli di ogni nazione ci riconoscono, da quando esistono i c.d. “social”, è l’essere i più grandi rompiscatole sull’argomento cibo del pianeta. Siamo tanto orgogliosi del fatto che la nostra cucina sia la più amata e replicata al mondo, quanto permalosi e critici quando ciò avviene.
“La panna nella Carbonara? Vergognaaa!!”, “Niente albumi e si usa il guanciale, non la pancetta!”, “Burro nella cacio e pepe, oddio mi sento male!”, “La ricotta nei veri cannoli siciliani deve essere di pecora!” e l’immancabile “La vera pizza si fa solo a Napoli!”.
Non c’è replica di un piatto della nostra tradizione che si salvi dalla vis censoria del Popolo Italiano, tra lo stupore dei lettori stranieri che fanno fatica a comprendere questo accanimento per mezza cipolla aggiunta in un sugo.
“Embeh? E chi se ne frega” direte voi. In fondo mostriamo solo di essere un Popolo fiero, unito ed orgoglioso del proprio passato che cerca solo di difenderlo dalle barbare ibridizzazioni della globalizzazione social. Questo è quasi certamente quello che pensate voi che state leggendo e che pensano e ripetono anche chef stellati (e non), giornalisti, opinionisti, politici (sovranisti e non), nei loro giornali, in TV come in Parlamento. Quindi è giusto, no? Lo sanno tutti, è importante difendere il “made in Italy”, patrimonio culturale ed economico del nostro Paese.
Mi spiace deludervi, ma non è vero: quello al quale si assiste quotidianamente ovunque e su ogni livello è solo ed esclusivamente la patetica apologia del nostro drammatico immobilismo, della nostra staticità ed incapacità di andare avanti.
Ma andiamo per ordine.
La pancetta e gli albumi nella Pasta alla Carbonara. Non vi azzardate ad utilizzarli eh? Vi potrebbero uccidere. Eppure nessuno fa notare che di questo meraviglioso piatto della tradizione laziale si inizi ad averne notizia soltanto (e sottolineo soltanto) dal dopoguerra. Molti autorevoli storici, ufficialmente ricercati, hanno ipotizzato che ciò sia accaduto per la diffusione tra la popolazione, provata dagli stenti della guerra, delle derrate alimentari distribuite dagli Alleati, tra le quali erano onnipresenti, per la colazione, le uova ed il bacon, addirittura in versione già pronta, nella lattina “chopped ham and eggs” della Razione K dei soldati (https://www.dday-overlord.com/en/material/equipment/k-ration). Non guanciale, neanche pancetta, quindi, ma il bacon (quello di “Succede solo da Mcdonaaaald’s”). Partendo da lì, l’ingegno, la creatività e lo straordinario senso di adattamento degli Italiani, avrebbero trasformato questi ingredienti con i pochi altri disponibili (il pecorino e la pasta) nella famosissima Carbonara. A supporto di questa tesi anche le testimonianze di Renato Gualandi, cuoco delle truppe alleate a Roma che riferì di aver, nei fatti, “inventato” il piatto in occasione dell’incontro tra l’Ottava e la Quinta Armata americana a Riccione nel 1944. In pratica la Carbonara sarebbe una “Fettuccine Alfredo” che ce l’ha fatta diffusasi grazie ai “sughi pronti” distribuiti dai militari americani. Già percepisco la vostra indignazione che monta feroce. E conosco anche la replica a questa volgare eresia: la Carbonara sarebbe l’evoluzione del “Cace e Ove” dei carbonai del Centro Italia che già facevano, a parte, ampio uso del guanciale. Decisamente più debole come tesi, ma ammettendo che sia vera, il discorso non cambia: nel “Cace e Ove” c’era l’albume? Sì (e di sicuro anche nella versione della Carbonara del primo dopoguerra). Era lontanamente il piatto che conosciamo oggi? No. Siamo sempre lì, alla fine gli unici ingredienti fondamentali per la Pasta alla Carbonara che andrebbero preservati sono la creatività, l’ingegno e lo spirito di adattamento. Stessa identica cosa per tutti gli altri piatti della tradizione italiana.
Il discorso è valido anche e soprattutto fuori dalla cucina.
L’Italiano del 2020 è profondamente convinto che non ci sia progresso nella storia se non una “una mera, costante e sublime ricapitolazione” per citare il Venerabile Jorge de “Il Nome della Rosa”. Andando all’estero guardiamo con malcelato disgusto le opere in acciaio, vetro e cemento armato delle altre nazioni. “Che ovvove, che cafonata, vuoi mettere con i nostri centri storici, con i nostri monumenti? Suvvia, non scherziamo”. Il risultato è che costruiamo infrastrutture sempre più minimali ed insignificanti, mentre crollano quelle dei nostri nonni, seguendo il mantra dell’ “impatto zero” (del MOSE cosa resterà se non cumuli di ferro arrugginito in fondo al mare), attorno a mirabili opere sempre più difficili da preservare. L’effetto è quello di un tesoro inestimabile e decadente circondato da formicai di fango pronti ad essere spazzati dal soffio del tempo. Il nostro misero destino è così preservare la grandezza di un passato ormai remoto, abitanti di pietre che non ci appartengono come scimmie che popolano rovine di civiltà perdute mangiate dalla giungla.
Molti di voi si chiederanno come sia potuto accadere all’Italia, agli Italiani, il Popolo che ha illuminato per più di una volta il sentiero della civiltà occidentale.
È semplicemente accaduto ciò che venne anticipato da Sciascia ovvero la “Sicilianizzazione dell’Italia”. E, tanto per aggiungere una nota di ottimismo, è accaduto in maniera molto più drammatica di quanto non avesse previsto l’intellettuale di Racalmuto. Non solo una contaminazione delle pratiche di malaffare, ma principalmente, in conseguenza allo sconvolgimento degli assetti geopolitici mondiali, l’espansione dello status di colonia, di periferia dell’Impero, a tutto il territorio nazionale.
Per anni si è parlato di Sicilia come “laboratorio politico” dell’Italia, capace di anticipare l’evoluzione della politica nazionale. Un pacchiano errore di sottovalutazione: la Sicilia è sempre stata (ed è) il laboratorio politico, ma anche culturale, linguistico, sociale, umano, economico del Paese. E da siciliano, vi assicuro che non è una buona notizia.
I Siciliani sono da anni intorpiditi nella propria condizione di sudditi illusoriamente aristocratici: spogliati di tutto, circondati da fantasmi, splendide macerie e dai (propri) rifiuti, ma fieri ed orgogliosi di essere gli abitanti della Terra dei Giganti.
Da decenni gli abitanti della Trinacria non hanno più memoria del senso delle gloriose pietre che loro malamente venerano e preservano. Per spiegarvi l’orgoglio di essere parte della propria terra un siciliano oggi non vi racconterebbe della potenza e lo splendore di Siracusa, della Palermo Normanna, di Messina porto e porta dell’Occidente per la riconquista della Terra Santa. Niente di tutto questo. Il Siciliano vi parlerebbe di cannoli, cassate, “si dice arancino o arancina?”, feste patronali, babbaluci, gelati, granite con panna, sfincioni, paste al forno, con le sarde e frutti di mare e…tutto qui. Qualche ulteriore riferimento al mare ed al clima ed abbiamo concluso.
Le strade dei centri storici si svuotano ormai da anni di negozi, di botteghe di artigiani, e vengono riempite da locali per lo “street food”, slow o fast poco importa, sempre più dozzinali, puzzolenti, sempre più patetici come la gente che li frequenta. I Siciliani come gli Italiani. Popolo di servi sempre più indaffarati a far da mangiare ai nuovi padroni, ma seguendo le rigide ricette della tradizione, convinti così, di preservare la grandezza della propria essenza. E mentre si cucina, si passa dall’essere portaerei del Mediterraneo a molo per tutti (come mirabilmente descritto da Limes https://www.limesonline.com/cartaceo/da-portaerei-a-molo-per-tutti-nella-spartizione-del-mediterraneo-allitalia-vanno-i-resti), spogliati di ogni valenza strategica come periferia di una Europa senza velleità politiche e militari, nella totale inconsapevolezza del nostro ruolo e prospettiva. Soltanto la certezza che anche questo scenario cambierà regala una flebile speranza.
A proposito di Speranza…tra gli esempi più recenti e grotteschi della nostra tendenza all’autocelebrazione del nulla, abbiamo proprio quello del nostro Ministro della Salute costretto a ritirare dal mercato il proprio libro autoincensatorio sul modello Italiano della gestione dell’emergenza Covid a causa della seconda ondata esplosa con una virulenza superiore rispetto agli altri paesi considerati poco virtuosi e prudenti fino a poche ore prima. Un modello, quello italiano, fatto di un numero altissimo di morti per abitanti, di banchi a rotelle arrivati a scuole (ri)chiuse e mascherine importate dalla Cina e, nonostante questo, decantato in conferenze stampa-show tra i peana di una stampa funzionale alla sopravvivenza Governativa.
Ancora una volta ci siamo considerati migliori senza alcun riscontro nella realtà.
Diceva Marx che la Storia si ripete sempre due volte, la prima in tragedia, la seconda in farsa. Da noi, purtroppo, sembra che le due fasi si presentino sempre insieme.
Ma c’è forse qualcosa di ancora peggio rispetto a ciò (gesti apotropaici concessi): emerge qualcosa di profondamente e psicologicamente perverso in questo continuo innamorarsi della propria immagine riflessa in uno specchio rotto, nel pretendere il rispetto per le regole apparentemente futili della tradizione culinaria e non, della glorificazione di metodologie e procedure giuste, “politically correct”, come dicono quelli bravi. Non è altro che voler bene alle sbarre della gabbia (sempre meno dorata) nella quale siamo entrati (più o meno spontaneamente), nella illusione che rispettando le regole, siano esse ricette tradizionali, un regolamento europeo o le disposizione di un DCPM, “andrà tutto bene” e “presto saremo di nuovo grandi”.
Non è così. Non è l’usare solo i tuorli o il guanciale al posto della pancetta a rendere unico l’essere Italiani, questo lo potrebbe fare meglio un tedesco o un giapponese. A renderci unici è l’aver preso una schifosissima lattina della Razione K dei soldati alleati ed averla usata per inventare uno dei piatti più straordinari mai realizzati. Altro che lutage, flambé e crepes suzette. Chi altri sarebbe stato in grado di farlo, senza quasi nulla a disposizione, tra le macerie di una guerra persa. Quale altro popolo? E non è mica successo 800 anni fa, ma appena 75.
Ed ancora…non è seguendo la regola dell’impatto zero o chiedendosi se non fosse una opera esagerata per il fabbisogno idrico della popolazione, che gli architetti dell’antica Roma costruirono gli acquedotti.
Qualunque aspetto si prenda in considerazione, sono sempre stati solo il genio, la creatività, la libertà mentale, la voglia di osare e la capacità di andare fuori dagli schemi a renderci così speciali ed irripetibili come Popolo. Ovvero ciò che regala la capacità straordinaria di comprendere che, a volte, il giusto ed il buono possono anche non coincidere.
Capacità che, oggi, sembra purtroppo dimenticata, indaffarati come siamo a difendere orgogliosamente il nostro declino.
“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”
(Tomasi di Lampedusa – Il Gattopardo)