Tra le pagine più importanti della storia della cultura siciliana vi è certamente quella legata ai Buttitta che, con passione, hanno operato per salvaguardare un patrimonio di conoscenza e valori che oggi sembra sempre più perdersi in una società distratta e superficiale. Ho incontrato Ignazio, il nipote del poeta di Bagheria, in occasione di un convegno internazionale sull’alimentazione e la cultura del territorio. Gli spunti erano validissimi per una chiacchierata in tal senso. E’ stata però una piacevole sorpresa fare la conoscenza umana di una persona lucida e onesta intellettualmente con la quale, fuoriuscendo dai binari delle domande che avevo preparato, ho potuto trovare spunti di riflessione comuni, fare disamine e valutazioni non soltanto legate alla cultura ma anche alla politica e alla società in genere. Una chiacchierata lunga, appassionante, che è approdata inevitabilmente ad una intesa che si reggeva unicamente, era evidente, sul sentimento sconfinato e profondo di chi ama questa terra e soffre davanti alla sua cruda e triste realtà.
Professore Buttitta, lei ha speso una intera vita sul campo di battaglia della produzione e della diffusione della cultura. Un impegno profuso attraverso la fondazione Buttitta, appunto, che opera da tempo. Quale lascito umano nella società? La fondazione è riuscita nella sua missione?
“Questa è una domanda che mette in gioco anche questioni di carattere personale. Ho assunto l’incarico di gestire la fondazione, dal 2005, anche per amore nei confronti di mio padre e per rispetto del lavoro da lui svolto; un lavoro caratterizzato da operazioni culturali importanti che ha condotto insieme ad altre persone, come Antonio Pasqualino, durante una stagione in cui esistevano determinate condizioni, sia per quanto riguarda le risorse disponibili che per l’attenzione della politica verso operazioni di recupero della cultura e della memoria locale. Erano anni in cui la passione e l’entusiasmo animavano la società; molte azioni si possono condurre quando vi sono anche motivazioni di carattere ideologico. Non è necessario entrare nel merito di una valutazione dei principi di quegli anni ma, genericamente, possiamo dire che la società aveva un’anima. Si era pronti a recepire sollecitazioni culturali e tutti rispondevano positivamente. Guardando all’oggi non voglio dire, e non è giusto che io dica, che la fondazione è stata protagonista di un grande fallimento ma le energie investite e anche i prodotti realizzati in parte sono, oggi, addirittura, dimenticati e non presenti nella memoria delle nuove generazioni. Ci sono molte ragioni per cui questo è accaduto. Ad esempio, allora, vi era preoccupazione che si perdesse memoria dei processi di lavoro della produzione cerealicola, delle tecniche di pesca, dei canti tradizionali o degli aspetti della ritualità; presi dalla necessità di raccogliere dati non si è pensato a creare degli spazi durevoli di conservazione e rappresentazione, in linea con le istanze della società. La fondazione arrivò sulla scena in un momento successivo e mio padre avvertì la necessità di salvaguardare la parte del patrimonio, non solo legato ad Ignazio Buttitta, di quella stagione “illuminata” in cui tanti erano mossi, come ho detto, dalla passione e dall’entusiasmo.”
Si è svolto, proprio con l’organizzazione della fondazione Buttitta, un convengo internazionale sulle produzioni tradizionali legate all’alimentazione. Come nasce l’idea e in che modo sono stati trattati questi temi?
“Quello dell’alimentazione è un tema, da tempo, di grande interesse in sede istituzionale e accademica; ma l’iniziativa non nasce per seguire la moda bensì per puntualizzare l’esigenza di prestare attenzione a tanti aspetti connessi a questo mondo. C’è anche l’intenzione di restituire dignità a quella che era una importante tradizione di ricerca, anche questa nata negli anni70. Questo è uno dei temi sui quali la ricerca antropologica, linguistica, sociologica ha visto una attenzione locale precoce. Rispetto a certi temi Palermo è stata fucina di idee e progetti che, poi, paradossalmente, hanno trovato esiti durevoli al di fuori dell’isola. Il grande problema della Sicilia è stato uno scollamento, avvenuto ad un certo punto, tra accademia e politica con responsabilità legate ad ambedue le parti. Noi spesso dimentichiamo che le istituzioni sono fatte di uomini: uomini che non hanno pensato al domani ma soltanto all’oggi. Ma questo, purtroppo, fa parte del nostro “habitus” culturale. E quindi ho organizzato questo convegno per riprendere una tradizione di studi, inserirmi in un dibattito attuale e per rilanciare una visione e una attenzione rispetto a certi temi con punti di vista che non siano solo legati al mercato.”
Proprio a tal proposito, parlando di cibo e turismo, possiamo ben dire che questa è un’epoca dove vi è un gran parlare di “valorizzazione turistica del territorio”. Spesso, però, questa è affidata a burocrati che non hanno le capacità intellettuali per affrontare queste tematiche in modo corretto. Rimaniamo quindi spettatori impotenti davanti al moltiplicarsi di sagre di ogni cosa che esauriscono la loro funzione nella coda col bigliettino per ritirare il piatto da mangiare, spesso scadente, e nel riuscire, da parte della politica locale, a mettere le mani su qualche migliaio di euro di finanziamenti pubblici. Nessuna riscoperta dell’autenticità locale, nessuna funzione culturale in queste manifestazioni mangerecce. Sono appuntamenti dove gli avventori tornano a casa con le stesse nozioni di quando vi erano arrivati. Non vi è traccia, tranne che in rari casi, di finalità culturale attraverso il cibo. E’ il contrario: vi è una finalità mangereccia attraverso una facciata culturale. Come andrebbero gestite, secondo lei, le iniziative turistiche per mettere al centro la cultura?
“Tu tocchi un tema a me particolarmente caro essendomi trovato, per lavoro, ad occuparmi di cultura immateriale, in particolar modo di feste popolari che hanno, tra gli elementi principali, proprio il cibo. Molte feste, quasi tutte, sono caratterizzate da forme di consumo alimentare che hanno sempre una ritualità in una dimensione devozionale. Sono stato sempre critico all’idea di utilizzare il patrimonio immateriale come un prodotto di mercato, quantomeno secondo le logiche stringenti del profitto economico. Negli anni 60 e 70 si è cominciato, da parte delle aziende provinciali del turismo, a promuovere il territorio anche attraverso determinate attività rituali; esempi sono i misteri di trapani o gli altari di San Giuseppe. A distanza di più di trenta anni, se osserviamo la festa del pane decorato ci troviamo di fronte non più ad altari devozionali ma a stand turistici, dove il pane non è più oggetto di scambio carico di valori culturali e sociali ma diventa merce, un semplice prodotto di mercato. Non c’è niente di più lontano che questo dagli elementi costitutivi della festa di San Giuseppe. Mi sono trovato in circostanze dove si manifestava questo problema e dove io avvertivo questi rischi. Sono anche nati dei conflitti nelle comunità. Ma, purtroppo, via via è prevalsa la visione commerciale che guardasse solo al profitto economico. Molto spesso il male viene perpetrato inconsapevolmente. L’amministratore locale che decide di pubblicizzare la sua festa locale è realmente convinto che questo comporterà un vantaggio per il territorio, un rilancio economico. Ma gli effetti sono due: o questo non avviene perché ci sono una serie di problemi di carattere strutturale e infrastrutturale che impediscono la corretta fruizione dell’evento oppure il tutto, come è più spesso, si riduce ad un tipo di turismo mordi e fuggi. Arrivano questi pullman di turisti per fare “la mangiata”; i fedeli vengono impegnati a preparare una quantità di cibo necessaria a soddisfare questo tipo di utenza che non ha idea dei valori che questo o quel rito avevano in quella comunità. E, infine, si ritorna a casa senza avere capito niente ma soltanto con la pancia piena. Bisognerebbe operare per riscoprire e far riscoprire le ritualità che vi erano dietro determinati appuntamenti abbandonando la logica del profitto a tutti i costi.”
Parlando di società a tutto tondo: la nostra città di Palermo ha ormai raggiunto livelli di degrado altissimi. Ma possiamo ormai argomentare in modo complesso, sociologico, addentrandoci nella valutazione di una sporcizia che non è soltanto estetica ma intrinseca, culturale. Palermo è un ritratto dove non vi è un orizzonte, una città dove non c’è vita. L’anima di questa città, della sua borghesia, che Pasolini avrebbe definito feroce, è sporca, subdola, avvinghiata a conformismi da salotto e ad interessi personali. Il concetto di bene comune qui è sconosciuto. Una città dove il degrado è spacciato per folklore. Dove monumenti e luoghi vengono stuprati da un esercito di barbari. Basta pensare alla Vucciria, con alcolizzati e drogati che urinano su una fontana del 500; ma il tutto è descritto, anche nelle guide turistiche, in modo accattivante, quasi simpatico: è la “movida”, il luogo dove i ragazzi si divertono. Una cosa che non si vedrebbe neanche a Beirut è descritta come “fenomeno culturale”. Certo i gattopardi ci sono sempre stati ma, oggi, i pochi ad urlare sono rimasti talmente in minoranza da essere circondati da critiche e maldicenze. Se ti lamenti, se protesti, se urli di dolore contro questo degrado vieni anche attaccato e isolato. Eppure questa è stata la terra dei Florio. Eppure epoche non troppo lontane ci guardano e, come fossero animate, ci chiedono: ma come ci siamo potuti ridurre così? Professore, Panormus, il centro del mondo, come si è potuta ridurre così? C’è, per lei , speranza di risorgere? Può questa città tornare ad avere un’anima e, quindi, a vivere?
“Purtroppo se dovessi fondare la mia risposta sulla mia esperienza di vita ti direi subito di no! Certo, sicuramente non in tempi ragionevoli o brevi, e dove per brevi intendo le prossime due o tre generazioni. I processi di ricostruzione, fossero avviati, avrebbero bisogno di tempi lunghi per potersi affermare. Qualunque progetto di ricostruzione della società, con principi e valori condivisi che devono essere inculcati a livello scolare, ha bisogno di tantissimo tempo per formare i cittadini del domani. Educandoli, ad esempio, al bene comune; pensare a se stessi non in funzione del proprio vantaggio ma come membri di una comunità il cui benessere avrà un ritorno anche sul singolo individuo. Non facendo questo noi non riusciremo mai a risorgere. Ho sempre pensato che uno dei problemi della Sicilia fosse stata l’incapacità di pensarsi come squadra, come comunità che deve raggiungere determinati obbiettivi. Eravamo e restiamo una cultura dove si pulisce la propria casa e si butta la spazzatura appena fuori la porta. Tu hai citato delle stagioni felici di questa isola che fanno anche parte, un po’, della mitologia; perché è vero: ci sono state epoche, dai normanni a salire, in cui la Sicilia è stata luogo di esperienze importanti che hanno avuto eco internazionale. Non solo storiografia ma anche testimonianze reali. Opere letterarie, artistiche, architettoniche di grande rilievo in linea coi tempi, all’avanguardia e in grado di influenzare stili di vita e artistici al di fuori della Sicilia; anche se non dobbiamo dimenticare che, in tante epoche, la grande parte della popolazione di questa isola viveva in condizioni di degrado materiale e morale. Guardando all’oggi, però, potremmo chiederci: come mai l’elite intellettuale dell’isola non riesce più a produrre alcunché? Sono tanti i fattori che andrebbero analizzati. Volendo fare un esempio concreto si può dire che una società produce valori artistici e intellettuali laddove esiste una economia reale; la nostra non lo è. L’assistenzialismo ha giocato il suo ruolo e certe scelte politiche radicali hanno contribuito a disgregare il tessuto sociale che è stato causa, spesso, del trasferimento altrove delle menti migliori.”
La cultura non si può fare coi sogni. Ogni cosa, purtroppo, ha bisogno della politica. Qualche tempo fa lei è stato protagonista di uno sfogo legato ai finanziamenti di questo ambito, anche relativamente alla fondazione che lei presiede. Finanziamenti ridotti da questo governo che ha tagliato in modo cieco mettendo a rischio iniziative e operatività. Quale risposta ha ricevuto, se ne ha ricevuto, dal governo regionale?
“Probabilmente ti riferisci ad un articolo letto su un piccolo giornale on-line. E’ significativo osservare lo spazio dove tu hai potuto leggere le mie dichiarazioni in merito alle difficoltà operative del mondo della cultura a causa di mancati finanziamenti e sostegni di vario tipo. C’è una cosa che, davvero, mi indispone! E’ il sentire dire, spesso, che gli intellettuali, termine che io detesto, non protestano e non dicono nulla. Poniamo che io appartenga, in qualche modo, a questa categoria. Non è vero! Esistono ed io non sono l’unica voce discorde ma non si trovano spazi, scientemente. Quello politico è tutto un sistema legato a quello dell’informazione. Il mio sfogo tu non avresti mai potuto leggerlo su un quotidiano di grande distribuzione. Tornando ai fatti non c’è stata e non c’è nessuna risposta realmente tesa a risolvere i problemi. C’è sempre una risposta puntiforme e tesa a prendere tempo. Queste questioni vengono messe sul tavolo da anni e mi preme ricordare, ad esempio, Alessandro Musco, che ha speso la vita per questi temi. Uno dei pochi compagni di questa battaglia per creare le condizioni affinché le fondazioni potessero vivere, sopravvivere e le loro azioni avere dei ritorni positivi sulla società. Questo l’unico spirito. Sono stato educato a spendere una parte della mia vita e delle mie energie per il bene comune, cosa che spesso non viene compresa, tra maldicenze e gratuite insinuazioni. C’è l’idea che queste fondazioni siano tutte delle sacche clientelari dove la gente sta li a fregarsi i soldi. Se è successo in alcuni casi non è corretto far di tutta l’erba un fascio.”
Diversi mesi fa ho avuto il piacere di incontrarla ad un convegno dell’onorevole Musumeci. Lei è un uomo di sinistra, se così posso dire anche se non mi piace inscatolare le persone con questi termini. Ma è una provenienza culturale chiara, la sua; proprio per questo è stato grande il piacere che ho provato nel vederla li. Questo nasce dall’idea che non possiamo più permetterci il lusso di dividerci in persone di destra o di sinistra. Con il rispetto della provenienza culturale di tutti, dobbiamo unirci trasversalmente tra persone di qualità e oneste per arginare, o tentare di farlo, chi vuole il male di questa terra. Un esercito del bene contro un esercito del male, possiamo dire. Intervistando l’On. Musumeci, ho raccolto la sua intenzione di convogliare persone di tutti gli schieramenti che vogliano mettere il loro cuore al servizio di questa terra, per tirarla fuori da questa condizione di grave difficoltà. Secondo lei è davvero possibile sognare di poter abbandonare gli steccati e mettere insieme chi vuol fare il bene di questa terra? Sarebbe possibile la nascita di un movimento rivoluzionario o è solo un sogno?
“Non sono andato al convegno organizzato da Nello Musumeci per caso o curiosità ma perché ho avuto il piacere di conoscerlo e apprezzarne lo spessore morale e intellettuale. Relativamente alla tua domanda entriamo in un campo complesso perché certi settori della cultura sono stati egemonizzati, da un punto di vista ideologico, dalla sinistra. Per quanto Musumeci si sforzi di denunciare questa stortura rivelando la sua attenzione verso mondi che vanno ben al di là delle sue appartenenze politiche e culturali, io temo che per molti influisca la paura di essere tacciati come fascisti e come coloro che hanno abbandonato l’unico campo giusto, che è quello della sinistra. Che poi, sinistra… E’ davvero ridicolo, oggi, coprire il proprio essere di sinistra con la copertina del PD. Io sono un socialista, ho dei valori che mi guidano. Ma non ho paraocchi. Ad esempio il mio apprezzamento per l’On. Musumeci si è manifestato quando ho ascoltato quello che lui ha detto sulla gestione dell’immigrazione. Era un discorso tutt’altro che di destra, ed era forse molto più di sinistra; come spesso avviene ascoltando gli uomini non semplicemente di destra, ma, ed è diverso, di destra sociale”.
Lei ha detto una verità che secondo me ha provocato tanti guai in Italia. E cioè che il mondo della cultura è stato egemonizzato dalla sinistra. Per mia opinione, le testimonianze sono tante, è stata operata una vera e propria violenza organizzata verso chi non si è piegato ad obbedire alla lettera. Possiamo citare Giampaolo Pansa, che appena si è rischiato di scrivere fuori dal binario della retorica antifascista è stato massacrato e ha dovuto presentare i libri protetto dai carabinieri; Simone Cristicchi, che ha realizzato uno spettacolo sulle foibe e sull’esodo istriano, Magazzino 18, è stato aggredito nei teatri, combattuto in modo cieco e violento; questo nonostante nella sua opera si criminalizzi il fascismo. La sua colpa è il raccontare la verità su quella pagina di storia dove il PCI ha il carbone bagnato e che è stata cancellata dai libri di storia. Potremmo elencare decine di questi casi. Allora faccio questa domanda a lei, che oltre ad essere una persona di cultura, mi ha dimostrato durante questa chiacchierata di avere un grande spessore umano e una grande onestà: quanto ha sbagliato la sinistra a proscrivere con questa violenza uomini che, nonostante una provenienza culturale diversa, potevano e possono collaborare alla produzione e alla diffusione della cultura e, quindi, al bene comune?
“Amplio la domanda, portandola anche sul piano politico, e dico: quanto sbaglia una classe politica che si rifà ancora, impropriamente, alla sinistra a tenere ai margini delle persone che non sono allineate e che non hanno la tessera del partito o che, soltanto, non hanno un atteggiamento prudente nel manifestare le proprie opinioni? Per fare un esempio tu sai perfettamente che, oggi, chi vuole intavolare “da sinistra” un discorso relativo ai flussi dei migranti non ideologicamente viziato, viene subito proscritto. Ci sono dei tabù rispetto ai quali non si può minimamente cercare di fare una riflessione seria. Non ci si può mettere intorno a un tavolo con persone che la pensano diversamente per discutere, argomentare. Questo è davvero un limite e non so quanto ancora potrà durare. Sia che si parli di politica che di cultura però, a volte penso che questo limite, questa realtà, faccia comodo a qualcuno… In fondo è un modo per tagliare le gambe a monte a tutta una serie di idee e di persone di valore che possono diventare competitive in un libero mercato della cultura. Se fosse davvero libero emergerebbero i migliori e invece, questo mercato, rimane gestito da certe aree politiche che, poi, naturalmente, sono aree di interesse. Io non ho mai voluto la tessera del PD per una scelta molto precisa: ho scelto la libertà di dire e raccontare tutto quello che penso, rischiando di essere bollato come un uomo che ha rinnegato la propria tradizione familiare. Ma è il contrario: è grazie a quello che mi hanno insegnato mio nonno e mio padre che io oggi sono un uomo libero. Ricordo da bambino le riunioni in casa, sono stato cresciuto a bandiera rossa. Ma mio padre mi ha insegnato a non avere pregiudizi ideologici rispetto all’alterità. E oggi giudico un uomo per quanto vale umanamente e intellettualmente e non per il ruolo che ricopre. Sono dalla parte di chi produce idee, fatti e mantiene una coerenza.”
Lei è stato in campo durante l’ultima campagna elettorale, ma, oggi, cosa pensa di Rosario Crocetta?
“Credo che la definizione migliore sia stata quella lapidaria di Musumeci: “un incapace capace di tutto”. Io credo che al di là di tutto si debba dire che Crocetta è un pessimo amministratore inadeguato a ricoprire questo ruolo. Quando si fa un’azione politica bisogna avere chiare quali sono le conseguenze delle proprie azioni e non si può cambiare idea dall’oggi al domani in base, come sembra dall’esterno, a semplici umori. Esiste ancora chi cerca di sostenerlo nonostante sia di dominio pubblico la sua inconsistenza, incapacità ed incoerenza. Questo si può fare solo per interessi precisi. È inconcepibile aderire a questo progetto politico dato tutto quello che emerso. Il caso della formazione professionale è emblematico. E’ stato scoperto un sistema con tante storture, certamente, ma se decidi di mettere mano a un settore devi avere una idea chiara da mettere in pratica. Oggi a distanza di tempo non possiamo dire che questo problema sia stato risolto.”
La nostra è una terra, a parte eccezioni, con un substrato culturale medio basso dovuto, tra le tante cause, anche a 50 anni di emigrazione della parte migliore della società. Per questo motivo, a mio avviso, una iniziativa concreta, quasi un sogno per rilanciare la Sicilia sarebbe la creazione di una “task force” dove uomini di cultura, docenti, imprenditori, intellettuali, vengano chiamati dai burocrati a progettare una offerta culturale e turistica di lunga visione, che tocchi le varie realtà siciliane e che sia di qualità, mettendo al centro la cultura e cambiando il volto di questa terra. Una regia unica regionale, una squadra di soldati della cultura e del saper fare che possa aggirare, anche a livello normativo, i limiti dell’oggi. Cosa pensa di una iniziativa legislativa di questo tipo? E’ solo un sogno o potrebbe, un giorno, vedere la luce?
“E’ una cosa assolutamente velleitaria! Per me, nella realtà dei fatti, anche perché non penso che debba esserci uno scollamento tra proposta e azione, basterebbe che un Presidente di Regione nominasse assessori, anche politici e non per forza intellettuali, di grande intelligenza e capaci di circondarsi delle persone migliori. Oggi gli assessori possono nominare i loro collaboratori e, quindi, se l’ufficio di gabinetto non fosse luogo dove collocare l’amico dell’amico o il funzionario indicato con la tessera di partito, un assessore non avrebbe bisogno di strumenti aggiuntivi. Abbiamo già tutto il necessario per poter operare facendo il bene di questa terra. Non ci vuol molto per migliorare l’offerta complessiva. Per far andare bene le cose basterebbe, semplicemente, la buona politica.”