Mi dispiace ma non ci sto; non posso accodarmi; non posso piegarmi al dimenticare, al fare finta di non sapere. Come stanno facendo tutti, si! Tutti si stanno piegando al dimenticare, al far finta di non sapere. Una consuetudine, questa, culturale, del non discostarsi dal coro, da ciò che ti viene suggerito di dire, di pensare. Tortura! Tortura? Forse, a Strasburgo, non hanno mai letto i racconti delle torture inflitte ai prigionieri politici nei sotterranei della Lubjanka e non sanno cosa significhi questa parola. E allora non si rendono conto di quanto questa sia fuori luogo, in modo talmente evidente dal provocare la reazione di chi non ci sta a fare la recita, a raccontare dei poveri e innocenti ragazzi torturati dai poliziotti. Diamine che ipocrisia!
Violenza, solo violenza fu protagonista dell’intervento alla Diaz. Violenza feroce, proporzionata, di reazione. E chi legge con attenzione avrà già capito che le mie intenzioni non sono certo quelle di difendere chi può aver abusato. No, certo. Quello che non ammetto, però, è la memoria storica che, mediaticamente, e con l’aiuto della parola “tortura”, vuole essere data di quei giorni. Una lettura dei fatti viziata, stucchevole, irragionevole. I ragazzi di oggi, che non ricordano quei giorni, cosa staranno pensando guardando i telegiornali? Che lettura storica gli si sta propinando? Ma perché in questo Paese la verità è sempre vietata?
Violenza, dicevo, come in una guerra. Perché è una guerra quella che venne dichiarata allo Stato italiano. Uno Stato che vide parte del suo territorio messo a ferro e fuoco da un esercito di “bravi ragazzi” organizzati a livello internazionale e diretti, in modo strategico-militare impeccabile, in azioni paramilitari di guerriglia. Roba da berretti verdi, da gente addestrata. Mappe delle città, con pianificazione degli accerchiamenti delle zone da assediare. Mazze, caschi. Un intera città vide divelto ogni sampietrino per essere conservato come munizione da scagliare contro il nemico. E giorni e giorni, con centinaia di militari feriti sul campo di battaglia, sanguinanti; camionette incendiate. Ma non solo. Chi ricorda i fatti di quei giorni ricorda che la violenza non riguardò solo il nemico ideologico, e quindi il servitore dello Stato, ma una intera cittadinanza ostaggio di quei “soldati del bene” armati fino ai denti che distrussero centinaia di vetrine di negozi, bruciarono macchine, sfondarono muri e porte. Una intera Nazione incollata agli schermi non credeva ai propri occhi. Genova sembrava Belgrado. Per le strade giravano i mezzi cingolati, scene incredibili. Tutti chiusi in casa, come in guerra, come fosse tutto vero. E lo era.
Lo era a tal punto che lo Stato decise di reagire, doveva farlo. Perché se ti dichiarano guerra, alla guerra si combatte; si deve combattere. E dopo giorni e giorni di violenze spaventose in cui i cittadini inermi osservavano impotenti l’avanzata delle vittime dell’oggi, la reazione dello Stato fu quella di penetrare dentro un luogo, una scuola, per mettere fine, con una violenza pari a quella che aveva subito, allo stato di assedio in corso. Che, sono certo, quella operazione venne ideata e voluta, scelta, al termine di una riunione dove le parole certamente furono quelle di chi, i dirigenti della polizia, sapeva che bisognava dare un segnale forte, un atto dimostrativo, che intimorisse e facesse capire ai soldati nemici chi comandava e che quanto era stato concesso fino ad allora non sarebbe mai stato più concesso. Che dovevano retrocedere. Raccontare in modo a se stante quelle violenze è pura ipocrisia.
Ci troviamo, infatti, davanti ad una patetica versione dei fatti espressa da coloro i quali pretendono di argomentare sulle violenze, innegabili, della Diaz, decontestualizzando, omettendo di narrare, evitando di sottolineare tutta la verità e non soltanto una parte. Un modo di fare ipocrita e sciatto di chi ad esempio, in modo grottesco, decontestualizzando appunto, racconta che in quella scuola c’erano anche ragazzi che non avevano fatto niente di male. Certo! Ma è una guerra e se ti ci infili dentro, se sei nel bel mezzo, peggio se per tua scelta, devi essere consapevole che volano le pallottole e che una può colpire te. Non è tollerabile raccontare quei giorni con lo spirito di chi vuole assimilare quelle violenze a quella di un poliziotto che, senza motivo e durante un posto di blocco, massacra di botte un ragazzo. Non ci sto! Le cose non andarono così! Non mi accoderò, non mi umilierò a dire la cosa politicamente corretta! Perché è li che tutto ruota!
Viviamo in un Paese, giova ricordarlo, dove un ragazzo, Carlo Giuliani, che stava tentando di assassinare un carabiniere che, per salvarsi, sparò, ha intitolata un’aula della Camera dei Deputati, con tanto di targa. La volle Bertinotti, Presidente del tempo. Per quanto io possa solo piangere per un giovane che ha perso la vita, ora voi capirete l’immensità della dittatura culturale del politicamente corretto protagonista di uno Paese dove le Istituzioni dedicano un’aula del Parlamento ad un ragazzo incappucciato che stava tentando di assassinare un carabiniere. Cosa altro c’è da dire per capire tutto dell’Italia. Ma in quale altro Paese sarebbe stato possibile ciò? E, permettetemi, una semplice domanda: se a morire fosse stato Placanica, il carabiniere; se Carlo Giuliani gli avesse aperto il cranio con l’estintore; insomma se a rimanere a terra in un lago di sangue fosse stato il servitore dello Stato, questo Stato gli avrebbe dedicato un’aula del Parlamento?