Quando, nel settembre del 2001, il terrorismo islamico divenne argomento di dibattito quotidiano, l’Italia vide diverse sue figure, tra intellettuali e giornalisti, distinguersi per la produzione di opinioni al riguardo. La ribalta definitiva verso il grande pubblico toccò ad una Oriana Fallaci che chiamò alla lotta contro un nemico con “La rabbia e l’orgoglio”. Suo grande amico, simile nelle posizioni, e profondo conoscitore delle tematiche in oggetto, era Magdi Allam che divenne, progressivamente, una figura a noi familiare. Il suo esser nato di religione islamica, infatti, lo accreditò come un commentatore autorevole in quanto conoscitore del corano e testimone diretto della realtà musulmana. Ci siamo incontrati a margine di un convegno sul populismo, a Palermo, e durante la lunga chiacchierata che abbiamo fatto ho voluto ripercorrere le sue origini, parlare delle sue opinioni intransigenti sull’islam chiedendone spiegazione e analizzare i motivi del suo allontanamento dalla Chiesa di Francesco dopo la sua, famosissima, conversione di qualche anno prima. Ma, soprattutto, Magdi Cristiano Allam – questo il suo nome dopo il battesimo – mi ha illustrato le sue opinioni su come andrebbe gestita la presenza di islamici in una nazione sottolineandomi il grave errore, che si è fatto e si continua a fare, di dare ad essi una connotazione di comunità a se stante, avulsa dal contesto che li circonda e, quindi, dal concetto stesso di cittadinanza.
Lei nasce in Egitto, a Il Cairo. Può raccontarci quale percorso di vita, dalle origini, l’ha portata in Italia?
Sono nato a Il Cairo da famiglia mussulmana ma ho avuto la fortuna, dall’età di quattro anni, di vivere e studiare in scuole cattoliche di quella città. Sono stato in collegio per quattordici anni dove, in ultimo, ho conseguito la maturità scientifica italiana. Nel 1972 arrivai in Italia, ventenne, con una borsa di studio del Ministero degli Esteri e mi laureai in sociologia all’università “La Sapienza” di Roma; iniziai, poi, a lavorare nel giornalismo.
Successivamente agli attentati delle torri gemelle lei divenne progressivamente più famoso essendo spesso chiamato a parlare di islam. Oggi è ormai molto noto per la lotta al terrorismo di matrice religiosa. Ma perché lei decise di intraprendere questa battaglia coraggiosa e appassionata?
Nelle mie analisi della realtà dell’islam ho potuto beneficiare della mia esperienza di vita. Sono stato immigrato nel 1972 quando vi erano, in Italia, solo 130.000 stranieri residenti; era ancora una nazione con una grande solidità sul piano dei valori. Sono stato musulmano per 56 anni e da musulmano ho creduto nella possibilità che potesse esserci un islam moderato e compatibile con i valori della nostra civiltà. Proprio per questo ho iniziato a denunciare l’estremismo e l’intolleranza. Semplicemente, per aver iniziato questo percorso, sono stato additato come un nemico dell’islam.
Contrariamente ai suoi pensieri di allora, nelle sue argomentazioni odierne, molto criticate per l’intransigenza, lei afferma che non può esistere un islam moderato. E’ proprio così? Può chiarirmi questa sua posizione?
Non ho semplicemente studiato la materia ma parlo per mia esperienza di vita. Io ho vissuto una realtà e subito minacce di morte. Ho approfondito, quindi, la mia conoscenza dell’islam rileggendo attentamente il corano e approdando alla conclusione che i musulmani, come persone, possono certamente essere moderati; ma solo se sono laici, se antepongono la ragione e il cuore a Maometto. Ma l’islam come religione, le sue prescrizioni coraniche e gli atti di Maometto non sono definibili come moderati.
Quindi per essere moderati bisogna non essere praticanti?
Non esattamente: chi pratica può e deve anteporre alla religione la ragione e il cuore. Io penso più di altri che ci siano tantissimi musulmani per bene con cui possiamo e dobbiamo dialogare: guai a discriminare la persona per la propria fede! Ma il problema vero non sono le persone ma le ideologie e le religioni. Vedi, vi sono due piani: la dimensione delle persone e la dimensione delle religioni. Le persone sono tutte pari, le religioni sono intrinsecamente diverse. Quindi bisogna valutare gli uomini sulle proprie azioni – viviamo in uno stato di diritto che si fonda sulla responsabilità individuale – ma non dobbiamo autoimporci la sospensione dell’uso della ragione quando parliamo di islam come religione.
Effettivamente sembra quasi vietato muovere critiche. E’ così?
Parliamo senza problemi del cristianesimo e del cattolicesimo, anche muovendo critiche aspre, ma sull’islam ci asteniamo dal rivolgere alcuna critica. E’ una autocensura che si fonda sulla nostra paura di guardare in faccia la realtà dell’islam.
In una recente intervista Souad Sbai, la rappresentante delle donne marocchine in Italia, mi ha detto che tutti i moderati sono stati eliminati dalla consulta per l’islam. Cosa pensa circa le varie iniziative del ministero dell’interno, come quello della consulta per l’islam, e in generale per la gestione del fenomeno in Italia?
Ad osservare le esperienze dei Paesi europei che ci hanno preceduto nella gestione di questo fenomeno, e cioè nella definizione di un rapporto con i musulmani presenti nel territorio di una nazione, io credo che sia un errore grave dare la connotazione di comunità a persone che professano la stessa fede. Mi spiego: così, ai musulmani, si concede l’idea dell’essere una entità distinta rispetto a quella della società di accoglienza. Dovremmo, invece, affermare un altro criterio: tutti quelli che scelgono di condividere il nostro spazio, che non è solo fisico ma anche valoriale, identitario, culturale e giuridico, devono farlo allo stesso modo con cui lo fanno già i cittadini. Proprio perché non dobbiamo discriminare nessuno, dobbiamo esigere da tutti il rispetto delle stesse leggi e delle stesse regole.
Quali conseguenza ha portato l’agire in modo opposto?
Quando avviene il contrario, concedendo ad una comunità di auto amministrarsi sulla base di proprie regole e leggi, nascono fenomeni ingovernabili, come accaduto in Gran Bretagna dove da 34 anni hanno legittimato i tribunali islamici! Così, inevitabilmente, viene a crearsi uno Stato nello Stato e, man mano, questo seme si potenzia e cresce, soprattutto a causa del nostro calo demografico. Dopo alcuni decenni, quindi, ci troviamo davanti a fenomeni come le banlieue parigine o il quartiere molenbeek a Bruxelles: luoghi dove gli autoctoni sono diventati minoranza e i musulmani si percepiscono come entità distinta e ostile alla società di accoglienza! Quindi io sono contrario all’esistenza stessa di consulte per l’islam e di quanto legittimi il concetto di comunità a se stante rispetto alla società di accoglienza.
E’ il 12 settembre del 2006 e Benedetto XVI, a Ratisbona, pronuncia un discorso sull’islam che farà molto discutere. E’ descritto come religione diffusa, sin da Maometto, attraverso la violenza. Difesa del cristianesimo e dei valori fondamentali della nostra civiltà. Inizia forse in quel momento il percorso che la porterà alla conversione al cattolicesimo. Lei, però, abbandonerà la chiesa di Francesco. Perché? E cosa è accaduto, da Ratisbona ad oggi, nella Chiesa?
Il discorso di Ratisbona ci parlò della indissolubilità tra fede e ragione. Papa Ratzinger, evocando le parole dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, condannò Maometto e l’islam in quanto incompatibili con la ragione. Apprezzai molto l’intervento che evidenziò come l’Europa ha paura di guardare in faccia la realtà dell’islam. Ho avuto, invece, una forte perplessità nel momento in cui la Chiesa ha legittimato l’islam come religione, ad esempio con Papa Francesco. Il 31 luglio del 2016 è stato consentito agli imam di Italia e di Francia, di salire sull’altare delle chiese e recitare i versetti del corano in arabo; questo cinque giorni dopo che un anziano sacerdote cattolico della Normandia era stato sgozzato da due terroristi islamici. E’ la prima volta in assoluto che avviene una così plateale legittimazione dell’islam ed è una assurdità tenuto conto che, invece, l’islam condanna l’ebraismo e il cristianesimo per miscredenza e concepisce se stesso come unica verità. Il cristianesimo è tenuto ad amare il musulmano come persona, ma sbaglia se legittima l’islam come religione. La sovrapposizione tra queste due dimensioni genera forti contraddizioni e incomprensioni. Questa è la ragione per cui, da spirito libero, mi sono concesso una riflessione su una Chiesa in cui oggi non posso più ritrovarmi.
Il suo allontanamento è quindi dovuto all’operare di Francesco?
Certo, anche circa le sue posizioni sull’accoglienza di clandestini che sono prevalentemente musulmani. Non riesco a comprendere come Francesco possa pensare che la rigenerazione della vita e della spiritualità, in una Europa decadente e scristianizzata, possa avvenire attraverso questa invasione di clandestini prevalentemente musulmani.
Lei crede che ci sia un nesso tra le anomale dimissioni di Benedetto XVI e il discorso di Ratisbona in cui difese la cristianità e criticò l’islam?
Una cosa è certa. Sicuramente il discorso di Ratisbona è stato l’apice del suo papato ma anche l’inizio delle fine. Da quel momento è stato oggetto di condanne e critiche. E’ stato accerchiato dalla diplomazia vaticana che nel novembre 2006 lo portò a pregare all’interno della moschea blu a Istanbul, sconfessando se stesso; lui che aveva invece denunciato la dittatura del relativismo. Si è ritrovato in una tormenta di scandali finanziari, di pedofilia nella Chiesa e, quindi, alla fine, ha rinunciato. Non era più in grado di gestire la Chiesa come Stato.
Il presidente algerino Boumedienne, nel 1974, pronunciò all’Onu il famoso discorso in cui avvertì di una conquista dell’emisfero nord attraverso la maggiore natalità tra i musulmani e la loro migrazione verso i paesi europei. Certo, se si rileggono quella parole di tanti decenni fa e pronunciate in tempi non sospetti, e si osserva la realtà odierna, si può solo pensare che avesse ragione. Sembra una profezia. La battaglia contro l’estremismo islamico e quella che molti definiscono islamizzazione dell’Europa è, in cuor suo, ormai perduta? Pensa che questo processo sia arrestabile o è troppo tardi?
Abbiamo il dovere di prendere atto della difficoltà estrema della situazione, a tutti i livelli; dalla crisi economica e degli Stati a quella dei valori, passando per la crisi demografica a livello europeo. Ma, pur nella consapevolezza che ci vorrà un miracolo noi non possiamo rassegnarci alla sconfitta in casa nostra. Dobbiamo sempre avere presente e non dimenticare che questa è casa nostra! Abbiamo il dovere di combattere per salvaguardare una civiltà, la nostra, che si fonda sulla sacralità della vita, la parità delle persone, la libertà di scelta. E abbiamo il dovere di consegnare ai nostri figli il diritto di poter essere sempre se stessi dentro la nostra casa comune. Dobbiamo rimboccarci le maniche ma non abbiamo altra alternativa che vincere questa battaglia, promuovendo sul piano culturale un processo che illumini le menti, fortifichi gli animi, renda la persone protagoniste e crei una mobilitazione che consenta una riscossa. E’ una impresa ardua ma io sono fiducioso. Ce la faremo!