di Nuccio Carrara
“L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…”
Così recita l’art. 1 della nostra Costituzione che qualcuno, con evidente sprezzo del pericolo, definisce “la più bella del mondo”. Il tempo si è già incaricato di demolire queste due affermazioni introduttive.
Sulla prima c’è poco da dire, l’evidenza parla da sola, dal momento che il lavoro è divenuto introvabile e, probabilmente, è andato a “fondare” qualcos’altro.
Sulla seconda, ci si è fatti troppe illusioni che oggi, in epoca Renzi, non hanno più motivo di esistere. La sovranità del popolo si è persa per strada, nel labirinto delle riforme, e non trova la via del ritorno. L’ultima, in ordine di tempo, è la riforma del Senato. Voluta “nell’interesse del Paese”, va da sé, per semplificare l’assetto istituzionale, per eliminare il bicameralismo perfetto, per rendere più stabili i governi, per ragioni di bilancio pubblico.
Un Parlamento con due Camere, che fanno sostanzialmente le stesse cose, funziona male, è lento nel legiferare, crea problemi al governo, soprattutto quando una delle due non ha una maggioranza solida che lo sorregga. Insomma, una sola Camera semplificherebbe le procedure legislative e soprattutto la vita al governo. Inoltre, in tempi di crisi, verrebbero abbattuti i famigerati costi della politica.
C’è del vero, in tutto questo. Sicuramente un parlamento con una sola Camera legifera più speditamente rispetto ad un Parlamento bicamerale. Ed è più facile per il governo farsi votare la fiducia da una sola Camera anziché da due.
Ma, se proprio si vuole riformare la Costituzione in questo punto, sarebbe meglio dare al popolo il potere sovrano di decidere. Si dovrebbe, cioè, passare da una repubblica parlamentare ad una repubblica di tipo presidenziale.
Tuttavia, se si vuole restare dentro un regime parlamentare che si muova secondo principi di pura rappresentanza e non di democrazia diretta, bisogna riconoscere che le crisi di governo storicamente non sono nate dal bicameralismo, ma dai giochi interni alle coalizioni e soprattutto dalle lotte intestine tra le correnti del partito-guida della coalizione. È stato così quando la Democrazia cristiana governava incontrastata, ma i governi non riuscivano a durare mediamente più di un anno. È stato così nell’ultimo cambio al timone, che ha visto Letta essere scalzato da Renzi, per dinamiche interne al Pd, senza elezioni e senza sostanziali dissensi tra i partiti della coalizione di governo.
Comunque sia, ben venga lo snellimento delle istituzioni. Aboliamo il Senato, quindi. Ma perché il Senato e non la Camera? Questo non è dato sapere. Tranquilli, però, il Senato non verrà abolito, non del tutto, cambierà pelle, farà altre cose rispetto alla Camera dei deputati e costerà di meno. Non darà più la fiducia al governo, ma concorrerà in vario modo alla formazione delle leggi. Per alcune (leggi costituzionali) manterrà il vecchio rapporto paritario con la Camera dei deputati, in regime di bicameralismo perfetto. In sostanza, rimarrà un organo legislativo. Ma non sarà eletto. Questo è il punto “qualificante”. Non sarà eletto perché vi confluiranno 95 rappresentanti locali provenienti dalle regioni e dai comuni (74 consiglieri regionali, 21 sindaci), cui si aggiungeranno cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica. I primi saranno scelti dai loro colleghi che, tra accordi e scambi di Palazzo, toglieranno al “popolo sovrano” il fastidio e l’incomodo di sopportare una campagna elettorale. Tra amici, e amici degli amici, tutto sarà “Cosa Loro”.
Non sarà più disdicevole né vietato sedere contemporaneamente sulla poltrona di parlamentare e quella di sindaco o di consigliere regionale, adesso “si cambia verso”, dice Renzi. Sarà così che una classe politica nata per gestire le realtà locali, sulla base di un consenso parametrato su programmi, logiche e spinte locali, fuori dall’orizzonte nazionale, si troverà a rappresentare la Nazione ed a legiferare in nome del “popolo sovrano” che non li ha votati. I senatori di nomina presidenziale, staranno lì per ricordarci che anche la monarchia vanta ancora qualche diritto. Tutto questo, però, farà risparmiare denaro pubblico, si dice; sarà un toccasana per il bilancio dello Stato, si dice. Verifichiamo.
Utilizzando i dati ufficiali dello stesso Senato, si può calcolare un risparmio di circa 100 (cento) milioni l’anno, a voler essere particolarmente generosi. Se si pensa che il debito pubblico cresce di circa 520 milioni al giorno, la “storica” riforma del Senato “abbatterebbe” i costi di poco più di cinque ore l’anno. Secondo stime più realistiche, le ore potrebbero non essere più di tre. Sai che risparmio! Roba da non credere.
Alla fine avremo un mostriciattolo istituzionale, frutto di una riforma del piffero, che mortifica la sovranità popolare con un risparmio di democrazia, più che di denaro pubblico.
Davvero dovremmo dire grazie al pifferaio di Palazzo Chigi?
Ma mi faccia il piacere! direbbe Totò.